Ci sono omicidi di mafia che sono entrati nella memoria collettiva, storie note, uomini uccisi per la loro lotta contro la criminalità organizzata e i cui volti sono ormai nell’immaginario comune: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato e Giuseppe Fava. E poi ce ne sono altri, morti ammazzati dal potere mafioso, di cui si sa poco e che non molti ricordano. È il caso di Serafino Famà, l’avvocato penalista che il 9 novembre del 1995 è stato assassinato a pochi passi dal suo studio, alle 21 di un giovedì qualunque, in piazzale Sanzio, a Catania. «Avevo tredici anni, ero proprio una bambina, e di quel giorno ho ricordi a tratti nitidissimi, a tratti particolarmente offuscati»: sono le parole di Flavia Famà, figlia dell’avvocato, che dal 2001 vive e lavora a Roma. «Catania l’amo e l’amerò sempre, è la mia città e non posso non esserle legata, ma va avanti con meccanismi malati, dai quali è difficile tirarsi fuori», prosegue. In occasione della commemorazione di suo padre a quindici anni dalla morte – in programma per martedì 9 novembre alle 16, nell’aula A2 dei Benedettini – Step1 ha posto a Flavia alcune domande, sulla vita di un professionista che la mafia ha eliminato perché troppo scrupoloso nel fare il suo lavoro.
Essere la figlia di una vittima della mafia significa sentir parlare del proprio padre spesso esclusivamente sotto il punto di vista della sua professione. È noto che fosse un uomo molto dedito al suo lavoro, ma lo portava con sé anche a casa?
«Quando mio padre usciva dall’ufficio smetteva di essere l’avvocato e diventava un padre, un ottimo padre, col quale avevo un rapporto meraviglioso e che mi è stato strappato. Lui credeva nel suo mestiere e ha fatto tanti sacrifici per studiare. Ricordo che un anno uscì un aggiornamento di un codice e lui ne comprò due copie, una per sé e una per un suo collega: lo studiarono d’estate, per arrivare preparati a settembre. Per il resto, quando entrava in casa si dedicava esclusivamente a noi. Era il genere di padre che insegna a sua figlia ad andare in bicicletta, a suo figlio a portare la Vespa, che si siede con loro alla scrivania per aiutarli coi compiti di scuola».
Però, in aula, difendeva i mafiosi. Come faceva a conciliare questo aspetto della sua vita con la sua moralità?
«Per lui l’etica veniva prima di tutto, ed è una cosa che si è un po’ persa. Mio padre credeva nel diritto alla difesa, credeva che chiunque dovesse subire un giusto processo, credeva che la legge dovesse essere rispettata sempre e comunque, da chiunque. Sì, tra i suoi clienti c’erano dei mafiosi, ma per lui il bene ultimo da perseguire in aula era la legalità. Era convinto che difendere un cliente non significasse sposarne la causa, o rispettarne le scelte di vita».
All’epoca eri molto giovane, avevi tredici anni. Cosa ricordi del giorno in cui tuo padre è stato ucciso?
«Sì, ero piccola. Ricordo benissimo che era un giovedì e che mio padre mi passò a prendere a scuola, quel giorno. Uscivo alle 14:30 e lui non voleva che prendessi l’autobus: quel giorno si fece trovare alla fermata. Poi, la giornata si svolse in maniera assolutamente normale. Sono andata all’allenamento di pallavolo con mio fratello e tornando a casa, in serata, abbiamo notato che c’era parecchia confusione per strada».
E vi siete fermati?
«Io avrei voluto, ma mio fratello per fortuna lo evitò. Eravamo in viale Raffaello Sanzio, e lui probabilmente aveva intuito, aveva percepito che c’era qualcosa che non andava. Mi lasciò a casa, e uscì di nuovo. Ricordo che cominciò a suonare il telefono di casa mia, perché nel frattempo era stata data la notizia della sparatoria in televisione. Quella sera, c’era una trasmissione di Santoro che aveva come argomento la mafia a Catania. Mi è stato detto che mio padre era stato colpito pochi minuti prima che io lo apprendessi da Sandro Ruotolo in televisione. Mio fratello arrivò in strada quando l’ambulanza stava portando via mio padre, lo trattennero per evitare che vedesse quella scena. Seppi che papà era morto l’indomani mattina. Ero molto legata a lui: quando non andavo a scuola lo seguivo in tribunale».
Avevate mai ricevuto intimidazioni, minacce, segnali che vi potessero lasciar presagire che tuo padre era diventato un bersaglio?
«A tal proposito, i pareri sono discordanti: i colleghi dicono che non si poteva intuire niente, io invece qualcosa la ricordo. Un finestrino dell’automobile spaccato nel periodo di Natale, per rubargli le chiavi dello studio; la casa in campagna incendiata. Lui aveva paura per noi, più che per se stesso. Capitava spesso che mi raccomandasse di stare attenta, che fosse particolarmente preoccupato quando tornava a casa, che telefonasse per verificare che tutto fosse a posto. Io non mi rendevo conto, anche perché vivevo nella sbagliatissima convinzione che la mafia che spara per strada a Catania non esistesse, che fosse una cosa limitata a Palermo. E, come me, molti altri catanesi».
E come vivevate quei momenti di tensione?
«Ricordo che, parlando della scorta a Falcone e Borsellino, una volta dissi a mio padre: “Papà, ma adesso la scorta la danno pure a te?”, e lui rise. Sosteneva che se fai il tuo lavoro con coraggio e onestà, la scorta è quasi superflua».
Dopo l’omicidio, per un anno e mezzo, gli inquirenti hanno brancolato nel buio. Si è dovuto aspettare il pentimento di Alfio Giuffrida affinché si scoprisse qualcosa sugli assassini di tuo padre. In quel periodo le istituzioni vi sono state vicine?
«Il sindaco Enzo Bianco, presente anche ai funerali, ci diede un grande supporto. Nessun altro. Arrivò una lettera dall’allora Presidente della Repubblica, Scalfaro, ci mandò una lettera, e basta. Probabilmente perché non era stata una strage. O perché mio padre era un avvocato penalista, e l’omicidio di un penalista – che nell’immaginario è un uomo senza scrupoli, a cui non importa nulla di chi difende – non fa tanto clamore».
Adesso?
«Adesso è ancora peggio. Io e mio fratello abbiamo dovuto agire in prima persona per il risarcimento civile, e siamo assistiti sì da un avvocato catanese, ma anche da due avvocati di fuori. Nessun altro ha voluto aiutarci, nonostante mio padre fosse avvocato pure lui: questo dà l’idea di quanto sia ancora forte l’influenza della mafia a Catania».
Da poco più di un anno, il mandante del delitto Famà, il boss Giuseppe Di Giacomo, è un collaboratore di giustizia. Come hai appreso la notizia e come la vivi?
«Premesso che è stato grazie alle dichiarazioni di Alfio Giuffrida, un altro pentito, che l’omicidio di mio padre ha avuto una soluzione, trovo che un errore troppo comune sia equiparare i collaboratori di giustizia con i testimoni di giustizia. Per quanto riguarda Di Giacomo, beh, ero sconvolta: l’ho scoperto tramite Facebook, e ho telefonato immediatamente a Goffredo D’Antona, collega di mio padre, e a Don Luigi Ciotti. So che qualunque pena gli diano mio padre non tornerà indietro, ma il solo pensiero che lui possa tornare in libertà – nonostante i vari ergastoli a cui è stato condannato per diversi reati dovrebbero rendere la cosa impossibile – e rifarsi una vita, protetto, con una nuova identità, mi dà i brividi».
Ma si è pentito…
«Non stiamo parlando di un uomo che all’improvviso sente rimorsi di coscienza. Stiamo parlando di qualcuno che ha compiuto ben più di un delitto, che li ha ordinati a sangue freddo, senza provare alcun rimorso. È una persona che ha soltanto capito che parlare conviene, altrimenti c’è il 41 bis».
Hai seguito il processo?
«Tentavano di tenermi nascoste le date delle udienze, però quando non ci riuscivano io ci andavo. Volevo guardare in faccia chi mi aveva strappato mio padre all’improvviso».
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