E’ stato ascoltato questa mattina al bunker del carcere Ucciardone, Gianni De Gennaro, l’ex Capo della Polizia, nel ’93 alla Dia e oggi a capo di Finmeccanica. In aula erano presenti i pm Di Matteo, Del Bene, Teresi e Tartaglia.
De Gennaro ha iniziato la sua deposizione dalla strage di Capaci e dai suoi rapporti con il giudice Falcone. «Dopo la strage, la Dia cominciò a pensare che, a partire dall’omicidio Lima, era cominciata una sorta di escalation di violenza proveniente dall’organizzazione mafiosa. Una valutazione diversa rispetto a quella che era stata data dell’omicidio dell’europarlamentare ucciso nel marzo 1992: nell’immediatezza dei fatti, la sua uccisione destò grande preoccupazione perché erano imminenti le elezioni politiche, ma la lettura era che l’omicidio era da ricondurre ad una sorta di vendetta delle cosche mafiose in conseguenza della sentenza del maxiprocesso».
De Gennaro ha risposto anche in merito ai fatti avvenuti nel 1989, quando una bomba fu piazzata nella casa al mare del giudice Giovanni Falcone, nella borgata marinara dell’Addaura. Un attentato sventato. «Giovanni Falcone era preoccupato dall’attentato all’Addaura. Mi manifestò i suoi timori per il rischio, i pericoli, che correva per avere alzato il tiro delle sue indagini. In particolare quella che conduceva in collaborazione con un magistrato svizzero (Carla Del Ponte, ndr). Con Falcone ero legato anche da rapporti personali e familiari, era certamente turbato. Poi rispondendo alle domande del pm ha aggiunto «Per quel che ricordo nell’immediatezza dei fatti non fece alcun accenno a Bruno Contrada». «Ricordo che dopo la strage di Capaci il generale Subranni, capo del Ros, era rimasto particolarmente colpito dalle modalità tanto da chiedersi: ma siamo proprio sicuri che sia stata Cosa nostra?».
Le stragi mafiose del 1993 di Roma e Milano furono un ricatto allo Stato? «Non ricordo un termine del genere, si parlava di attacco allo Stato. Fu un’aggressione destabilizzante con una matrice da stabilire. Solo dopo la riunione del 10 agosto la pista mafiosa per quanto riguarda gli attentati in Continente, divenne più consistente».
Poi sulla strage di via D’Amelio ha dichiarato che «la valutazione era che quest’ultima fosse quasi inaspettata, una anomalia per una organizzazione come Cosa nostra che mirava a ottenere il migliore risultato con il minore danno. Sottolineammo subito l’anomalia della strage costata la vita al giudice Borsellino, perché capimmo che per la mafia era una sorta di boomerang. Infatti fece da acceleratore all’adozione di misure repressive che, fino ad allora, stentavano ad essere approvate. L’analisi che venne fatta – ha aggiunto – segnalò la preoccupazione di un futuro possibile attacco alle istituzioni e si valutò l’ipotesi che, proprio in ragione di quella anomalia notata, ci potesse essere la complicità di altre organizzazioni criminali».
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