Come si fa a vivere tra due mondi? e come si fa ad appartenere a due culture completamente diverse allo stesso tempo?
Sono queste le domande che mi sono posta leggendo una breve biografia della celebre scrittrice Samina Ali, e soprattutto ascoltando le sue parole, in occasione del seminario tenutosi g.18 maggio presso la Facolta di lingue e letterature straniere a Ragusa.
Donna straordinaria e di grande talento, Samina Ali è riuscita, attraverso il suo libro “Madras on rainy days” (non ancora uscito in Italia), a descrivere in maniera piuttosto forte e dettagliata la vita di una donna, di origini indiane e religione musulmana, che vive tra l’India e gli Stati Uniti, dentro la quale due mondi si confrontano.Attraverso la storia di questa donna Samina riesce a dipingere un quadro che pochi conoscono, cioé la realtà che le donne musulmane vivono, in particolar modo quella legata la matrimonio, abbattendo gli stereotipi. La protagonista del libro, che vive appunto negli USA, deve tornare in India per andare in sposa ad un suo connazionale, che si rivelerà essere gay. E l’aspetto più interessante, a mio avviso, sottolineato dalla scrittrice, è che pochi sanno che la donna musulmana non è obbligata a sposare l’uomo che i genitori hanno scelto e che lei non conosce affatto,e che, nel caso in cui accettasse il matrimonio, si crea una specie di accordo basato sul rispetto reciproco dei coniugi, in cui, i due scrivono tutte le cose che desiderano l’altro rispetti o non faccia.
Ma il libro traccia anche le differenze che ci sono tra Islam arabo e Islam indiano e delinea l’identità che la donna ha in India e in Occidente.
Samina è una viva testimonianza di questa stupefacente convivenza, poiché lei si sente sì particolarmente legata al suo mother country, l’India, e profondamente musulmana, ma allo stesso tempo si sente molto legata anche alla cultura occidentale che gli Stati Uniti le hanno dato, e la lingua in cui scrive è l’inglese.In realtà potremmo dire che Samina Ali è un’immigrata perché nata in India, ma a soli sei mesi di vita andò a vivere con i genitori in America.Ci ha raccontato come a quel tempo (siamo negli anni ’70) gli immigrati fossero la “potenza” economica degli USA, e come dopo l’11 settembre e ancora adesso, siano visti come il loro peggior nemico.Anche questo mito sarà sfatato dalla scrittrice, nel suo libro, affinché la gente smetta di associare Islam = Terrorismo perché non è così.
Si è soffermata sulla condizione delle donne immigrate negli USA, e per fare ciò ha usato il termine “invisibili”, nel senso che già da prima scrivevano e lottavano per i propri diritti, ma lo facevano, come dire, in modo silenzioso. Adesso, invece, molte cose sono cambiate e la lotta deve essere fatta ad alta voce, perché la gente non è più capace di ascoltare e perché molti ancora non conoscono la realtà sociale di queste persone.
Samina non ci ha presentato un’immagine femminile debole e fragile, ma forte e indipendente, che sa farsi valere anche all’interno di un mondo “altro” dal proprio.
A parlarci, invece, delle donne ed immigrate iraniane negli USA è stata la dott.ssa Anna Vanzan, laureata in lingue e letterature orientali a Venezia.
Il genere prediletto da queste scrittrici (che in realtà non nascono come tali) è l’autobiografia, che non è mai fatta in prima persona ma viene usato il plurale majestatis, perché l’autobiofrafia nel loro paese è vista come un atto contro la pudicizia.Tale genere non ha successo nel loro paese d’origine ma ha molto successo nel loro paese d’arrivo, gli Stati Uniti. Dalla letteratura emerge la volontà di queste donne di affermare le proprie idee, donne che vivono sempre nel “between”, tra madre patria e USA.
La vita di queste persone non è facile, soprattutto per due ragioni: perchè da un lato abbiamo l’Iran come madre patria culturale, ma che allo stesso tempo crea loro difficoltà nel vivere la loro quotidianità, dall’altro abbiamo “l’alterità” e il “dislocamento” in un paese che non è il proprio e che è troppo diverso; e dove l’assimilazione è l’unica via che permette loro di varcare le barriere di un asilo, a volte troppo pesante da sopportare, dove lo stereotipo è un nemico giornaliero.
La lingua in cui queste scrittrici iraniane scrivono è l’inglese, e non perché l’inglese sia la lingua più parlata al mondo, ma perché la lingua è un mezzo essenziale d’integrazione, e vivendo negli Stati Uniti non possono che scrivere in inglese; anche perchè se scrivessero nella loro lingua, chi le comprenderebbe e chi leggerebbe le loro vite,se non in pochi..
Altro espediente per farsi meglio accettare dalla società americana era quello di dire “sono persiana” e non “sono iraniana”, semplicemente perché Iran = Terrorismo. Ed è così che un’autrice, Firozeh Dumes, scrive un libro in inglese dal titolo : “Funny in Farsi”, dove Farsi è il nome inglese per dire lingua persiana.
Concludo con questa citazione :”mi sono mossa in tutto il mondo, ma non trovo parole con le quali il cuore traduce la lingua della separazione”.
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