«Un soggetto ultraottantenne, affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa, tanto da essere allettato con materasso antidecubito e non autonomo nell’assumere una posizione seduta, esposto, in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». Con queste parole la corte di Cassazione descrive Totò Riina oggi. Un’istantanea lontana da quella degli anni ’80, quando il boss corleonese teneva le fila di Cosa nostra, tra stragi e latitanza. Una sentenza che ha già fatto molto discutere quella con cui i giudici ermellini sembrano dare di fatto ragione – pur senza poter decidere nel merito – al legale di Riina che da anni chiede la scarcerazione del boss a causa delle sue precarie condizioni di salute. Richiesta bocciata lo scorso anno dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che adesso sarà invece chiamato a pronunciarsi di nuovo dopo il rinvio della Cassazione. Una questione che ha a che fare con il diritto ma anche e soprattutto con la «dignità dell’esistenza» e il «diritto di morire dignitosamente». Da giorni l’opinione pubblica è divisa, ma poco chiari sembrano essere i contorni della decisione e le sue possibili conseguenze.
Dal 1993, Totò Riina è sottoposto al carcere duro. Nel 2003, già settantenne, cominciano i suoi problemi di salute, tra infarti, trasferimenti in ospedale e operazioni. Da allora i suoi legali denunciano l’incompatibilità delle sue condizioni di salute con il regime carcerario e chiedono che la sua pena venga differita o che il detenuto venga spostato agli arresti domiciliari. Due questioni di cui si discute ancora oggi. Nel primo caso, si tratta di una sospensione temporanea della pena per motivi di salute: alla fine della pausa, si valuta se il detenuto possa tornare o meno in carcere a scontare il tempo che gli restava prima della sospensione. Nel frattempo, è sostanzialmente un uomo libero, al netto delle eventuali precauzioni stabilite dai giudici – come vari obblighi o controlli -, in base alla sua pericolosità sociale. Più note invece le caratteristiche degli arresti domiciliari, attraverso i quali le lancette dell’orologio della condanna continuano a scorrere, ma con maggiori restrizioni in termini di contatti con l’esterno.
A maggio dello scorso anno il tribunale di sorveglianza di Bologna rigetta queste richieste e stabilisce che lo stato di salute di Riina, «pur grave», è trattabile attraverso le cure in carcere. Soprattutto considerata la pericolosità del soggetto; la forza, pervasiva ancora oggi, di Cosa nostra e il suo costante rifiuto di dissociarsene. Tutti elementi che, per i giudici bolognesi, non possono dare certezze sulla possibilità che il boss non torni operativo. Davanti a questo rifiuto, la difesa del capo dei capi presenta ricorso in Cassazione. Che adesso ha deciso: la sentenza dei colleghi bolognesi è «carente e, in alcuni tratti, contraddittoria». Sia per quanto riguarda la compatibilità della detenzione carceraria con le condizioni di salute di Riina, sia per «il superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali del senso di umanità della pena e del diritto alla salute». Secondo i giudici ermellini, affinché un detenuto possa lasciare il carcere non serve che abbia una malattia che metta a rischio la sua vita, ma basta «ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria». Situazione in cui, secondo tutti i giudici che si sono espressi, Riina si trova.
Tanto più, fa notare la Cassazione, che il carcere di Parma in cui il boss si trova non è adeguato. Un esempio su tutti: «La necessità del condannato di avere a disposizione un particolare letto rialzabile non può essere soddisfatta a causa delle ristrette dimensioni della camera di detenzione». «Ferma restando l’altissima pericolosità del detenuto Salvatore Riina e del suo indiscusso spessore criminale», infine, i giudici romani chiedono ai colleghi di Bologna di chiarire con fatti concreti «come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso». Adesso la questione passa nuovamente al tribunale si sorveglianza di Bologna, che dovrà decidere sul futuro del boss.
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