Tornatore, la mosca e le braccia corte

Ha preso il via la rassegna, ad ingresso gratuito, dedicata ad incontri con autori di importanti novità editoriali. La rassegna è inserita nell’ambito di Te.St., il filone artistico e culturale che lo Stabile etneo riserva alla ricerca e alla sperimentazione. Ospite d’eccezione del primo incontro, Giuseppe Tornatore, attualmente in corsa per la candidatura all’Oscar con il suo ultimo film “Baarìa”.

Nell’Aula “Santo Mazzarino” del Monastero dei Benedettini, Tornatore si è sottoposto ad una vera e propria intervista in diretta, condotta dal giornalista Domenico Tempio, vicedirettore del quotidiano “La Sicilia”. Intervista che ha coinvolto anche lo scrittore Pietro Calabrese, coautore di “Baarìa, il film della mia vita” , edito da Rizzoli. Si tratta di un libro a due voci – realizzato sotto forma di intervista – che ripercorre la vita del regista bagarese partendo proprio dal centro della cittadina per approdare poi presso le spiagge cinematograficamente raggiunte dietro la macchina da presa.

Nel libro – ma anche durante l’incontro – Calabrese decanta un Tornatore coraggioso ed ostinato, capace di trasformare la passione in determinazione e di dare concretezza al suo talento, fino a fare coincidere sogno e realtà. Fu proprio quella determinazione a condurlo dritto all’Oscar a soli trentatrè anni con “Nuovo Cinema Paradiso”. Mentre tutt’oggi il suo entusiasmo vuole rappresentare uno stimolo per i giovani talentuosi che si scontrano con le prime difficoltà della regia.

Giunto a Catania in veste “letteraria”, Tornatore si ritrova inevitabilmente a rispondere del e sul suo film, ritratto nostalgico di una Sicilia ormai cambiata, ma incredibilmente amata. Vi riproponiamo i momenti salienti dell’intervista.

D.T. – Tomasi De Lampedusa scriveva che bisogna andar via dalla Sicilia prima dei diciotto anni, per non ereditarne i vizi. E’ vero?
«Sono partito per Roma a ventisette anni. Ho avuto il tempo di assorbirli tutti. Ma questi vizi sono anche la nostra forza: quella particolare sostanza che caratterizza la sicilianità. Se vai in giro per il mondo e riveli la tua identità, la gente rimane stupita, perché della Sicilia si sa tantissimo. Non esiste in tutto il mondo un’isola così piccola che abbia ispirato il cinema come ha fatto la Sicilia. Ha prodotto tante cose, la cultura in primis; certo anche la “meglio” criminalità. Ma se in un film inserisci un siciliano, anche per un piccolo ruolo, la gente ride. E ciò accade perché essa in realtà già conosce quel personaggio, perché ne conosce la terra d’origine».

D.T. – “Noi siciliani crediamo di abbracciare il mondo, ma abbiamo le braccia corte”. Perchè questa affermazione nel film?
«Questa battuta la dice un sognatore. I Siciliani sono un popolo di sognatori. Alberto Moravia mi rimproverò questa visione in occasione di Nuovo Cinema Paradiso, ma io la vedo così. E’ un elemento dell’isola, dell’esclusione, del saper vedere oltre i confini. Un altro significato è quello relativo al peccato della superbia, ma quello principale rimane il sogno. Non so spiegarlo ulteriormente, ma sento che è un momento del film che arriva molto al pubblico. Credo che i grandi sogni si possano realizzare anche in Sicilia. Qualcuno ha obiettato che a me è successo perché io “non ho le braccia corte”. In realtà è perché non ho mai mollato. Tanto che quando ero a Roma, feci una sorta di patto pirandelliano con me stesso e mi promisi che tutte le volte in cui avessi ricevuto una risposta negativa, mi sarei comportato come se fosse stata positiva. Così mi presentavo ad appuntamenti negati o ripresentavo soggetti bocciati, fino a quando non incontrai un produttore veramente interessato».

D.T. – Esiste un detto: “Cu nesci, arrinesci” (Chi va via, riesce per forza). Poi bisogna tornare?
«Baarìa è stato certamente un ritornare. Ho fatto anche cose che con la Sicilia non c’entravano nulla, ma con Baarìa è stato come ritrovare i miei parenti ovunque andassi, sia che fossi a Bagheria, che a Palermo o a Ragusa. Mi sento ampiamente appagato dall’affetto dimostratomi dalla gente, che ti dà l’energia per continuare a lavorare».

D.T. – Il dialetto rischia di dividere?
«Si tratta di un enorme patrimonio culturale. Ma questo vale per tutti i dialetti, non solo per quello siciliano. Il dialetto è così: se ne parli uno, li capisci tutti; altrimenti non ne imparerai mai nessun altro. Sono a favore di qualsiasi legge che ne regolamenti la didattica, anche se non saprei dire se esso dovrebbe costituire materia di studio obbligatoria. Però sono contrario a qualsiasi strumentalizzazione scissionistica del dialetto e del mio film. Non ho fatto un film in dialetto solo per combattere le opinioni della Lega».

D.T. – Il film inizia con un bambino che corre e finisce con lo scontro con un altro bambino, di una generazione diversa. Perché questa scelta?
«Il film apparentemente dura un secolo; nella realtà il tempo di andare a comprare un pacchetto di sigarette. Lo scontro in questione è tra padre e figlio, cioè tra due bambini di due epoche diverse. Ma se un secolo dura “il tempo che uno sputo si asciughi al sole”, l’incrocio diventa possibile e consente a ciascuno di far ritorno alla propria epoca. Non volevo raccontare la storia d’Italia: non m’interessava il cronachismo».

D.T. – Il film finisce con la comparsa di una mosca che dopo cinquanta anni è ancora viva. Cosa significa?
«Bè, se il tempo è relativo, allora non esiste; così una mosca può ancora essere viva dopo cinquanta anni. Questa è la cifra narrativa del film. Quella esistenziale è che vale sempre la pena vivere, anche dopo una catena di delusioni. Di solito rispondo così: la mosca significa quello che hai pensato nel momento in cui l’hai vista».

 D.T. – Hai detto che vuoi fare un altro film…
«Sì, ma non rivelo niente, perchè altrimenti non si realizza. La verità è che quando finisci un film, lo perdi. L’hai visto e rivisto così tante volte, che ne perdi il senso complessivo. Recuperarlo è il solo diritto del pubblico. Mentre il regista ha subito bisogno di fare un altro film. Come diceva Mastroianni, il nostro mestiere non è un lavoro. Non abbiamo bisogno di ferie, anzi: noi andiamo in ferie lavorando».

Antonia Maria Arrabito

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