Testamento biologico, a chi fa paura?

L’Italia è forse l’unico paese occidentale a non avere ancora preso posizione su una questione urgente e complessa come il trattamento di fine vita. Succede sempre così: proposte di legge cadute nel vuoto e un parlamento in stato vegetativo che si sveglia solo quando sono le vicende di cronaca a fare rumore. La legge sul testamento biologico dovrebbe dar voce a chi non ne ha più, i malati in fase terminale. Ma a chi fa paura questa legge? Si è fatto il punto della situazione lunedì 30 novembre, alla Facoltà di Giurisprudenza di Catania, con un convegno dal titolo “Testamento biologico. Profili giuridici, medici e morali.” A raccontare la sua esperienza è Mina Welby, moglie di Piergiorgio, con l’intervento di esperti di diritto, medicina e bioetica come il professore Salvatore Amato (Ordinario di filosofia del diritto e biogioridica, nonché membro del Comitato nazionale di bioetica), l’avvocato Sebastiano Papandrea (Vice-presidente del Comitato per i Diritti Civili), il dottor Antonino Prestipino (neuropsichiatra infantile) e padre Carlo Lazzaro (cappellano dell’Hospice Cure Palliative “Giovanni Paolo II”).

«Il Comitato di bioetica, al contrario del Parlamento, è riuscito a stilare un documento condiviso», racconta il professore Amato. L’obiettivo è stato raggiunto, spiega, perché il Comitato è riuscito ad accantonare questioni spinose come l’eutanasia, concentrandosi su un principio: consentire all’incapace di agire come se fosse capace. Il risultato è un documento che prevede una “vincolatività assoluta, ma derogabile” del medico, nei confronti della scelta del paziente. La volontà del soggetto va rispettata, secondo i membri del Comitato di Bioetica, ma in casi eccezionali il medico può rifiutarsi di eseguire le disposizioni del malato, motivando il suo rifiuto e assumendosene la responsabilità.

Attraverso il testamento biologico, si vuole consentire alla persona in condizioni di lucidità mentale, di esprimersi in merito a terapie come la nutrizione e l’idratazione artificiali (accettandole o rifiutandole), nell’eventualità in cui il soggetto si trovasse in una situazione di incapacità. In Italia, cattolici, laici e radicali non riescono a incontrarsi su un terreno comune, e il dibattito politico, che va avanti a forza di titoli sui giornali e salotti in TV, sembra lontano dal tener conto di ciò che invece vorrebbero i cittadini. C’è quindi chi parla di vita come diritto assoluto e non suscettibile di proprietà, e chi ritiene invece imprescindibili i valori della libertà di scelta e dell’autodeterminazone. C’è anche chi ancora respinge l’idea di stabilire in anticipo e, sostituendosi al medico, quando staccare la spina perché “è prerogativa dell’uomo cambiare idea” e chi vuole morire con dignità, almeno quello, perché preferisce affidare ad un testamento la propria volontà piuttosto che lasciar decidere lo Stato o un camice bianco.

A tracciare l’iter della legge sul testamento biologico, adesso in discussione in Parlamento, è l’avvocato Sebastiano Papandrea. Si tatta di una legge presentata nel 2008 da Ignazio Marino (senatore PD) per garantire la libertà di scelta sui trattamenti di fine vita, e che, a seguito di rimpasti, nella nuova veste del disegno Calabrò, vieterebbe al soggetto di disporre di terapie come la nutrizione e l’idratazione artificiali, snaturandone dunque la ratio.

Intanto nel nostro paese una realtà che prende piede, anche se con forti squilibri tra nord e sud, è quella degli Hospice. Il dottor Prestipino, membro dell’ANFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva), racconta del graduale affermarsi in Italia delle cure palliative che fino agli anni ‘80 erano vietate. Spiega quale sia il ruolo di queste strutture che rappresentano una valida alternativa all’eutanasia, diventando un punto di riferimento per i malati incurabili che possono trovare sollievo negli ultimi giorni della loro vita, assistiti dal conforto dei familiari. Sono realtà che anche Padre Carlo Lazzaro conosce perché da anni assiste i malati nell’Hospice cure palliative “Giovanni Paolo II” di Catania. La sua è una riflessione lontana dal mondo accademico; il punto di vista di chi vede prima di tutto l’essere umano e dopo il paziente o il soggetto giuridico. Si sofferma dunque sul valore della vita, anche se distrutta dalla malattia, e su l’unicità dell’essere umano.

Sulla legge ci sono dunque pareri discordanti, ma quando tra codici e definizioni si fa spazio una storia di amore e sofferenza come quella di Piergiorgio Welby, ci si sente tutti un po’ meno giudici del bene e del male. Mina Welby, spende poche parole sulla sua vicenda personale e si mostra subito molto critica nei confronti della situazione di stallo legislativo in cui versa il nostro Paese: «E’ la parola eutanasia che fa paura? In questi casi non si vuole procurare la morte, si vuole solo accettare di non poterla impedire». La sua speranza è quella che il Ddl alla Camera venga presto dimenticato perché sono troppi i riferimenti al codice penale «ed è impensabile che una sentenza abbia dovuto scrollare di dosso al dottor Riccio, che ha aiutato mio marito a morire, l’accusa di omicidio volontario», spiega. Mina Welby è una convinta sostenitrice dell’importante funzione che svolgono gli Hospice e si augura che anche al Sud questa realtà possa essere sempre più presente: «Perché il Sud conserva la sua umanità. Non si è persa la dimensione della famiglia, ci si stringe tutti attorno al malato. Al Nord si è spesso più soli» racconta.

L’aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza è gremita e in molti sono in piedi a testimonianza dell’interesse che suscita l’argomento. A incontro concluso, dalla platea interviene un avvocato che dopo una considerazione tecnica sul disegno di legge, cita Sciascia: “Ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza” (da Una storia semplice, ndr).

L’incontro è stato organizzato all’associazione studentesca Nike.

Flavia Musumeci

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