Teatro, morto l’attore-regista Puggelli Il suo rapporto di amore e odio con i catanesi

Lamberto Puggelli, regista e attore molto apprezzato, è stato per un lungo periodo più catanese che milanese. Al Teatro Stabile di Catania, infatti, ha diretto con passione la scuola d’arte drammatica Umberto Spataro. Durante quel periodo Puggelli e i suoi allievi sono stati di casa anche all’università con letture e convegni come quello, di risalto nazionale (organizzato in collaborazione con la facoltà di Lingue) per il cinquantenario della morte di Bertolt Brecht. Poco più di un anno fa, la stagione catanese del maestro Puggelli si interruppe bruscamente. Torna adesso nella nostra città firmando la regia di Medea, l’opera che ha inaugurato la stagione lirica 2009 del Teatro Massimo Bellini di Catania. Ne abbiamo approfittato per intervistarlo.

C’è qualche traccia della sua passione per il teatro di Brecht, nella regia di Medea?
«Brecht diceva che “con la nostra arte dobbiamo contribuire all’arte più grande di tutte, cioè quella di vivere”. E’ un concetto che racchiude tutto ciò che cerco di fare in teatro. Noi siamo consapevoli che non possiamo cambiare il mondo, però possiamo portare la nostra pietruzza nella direzione giusta, che è quella di modificarlo questo mondo, di non accettarlo così com’è; con tutte le sue strutture, con le guerre, con le porcherie che si fanno in ogni dove».

La messa in scena di Medea ci riesce?
«Non sono amico delle attualizzazioni tout court. Non metterei mai in scena la mamma di Cogne! Naturalmente non posso neppure far finta che alcuni episodi di cronaca non si ripercuotano nella testa degli spettatori. Medea però è uno scavo in profondità nell’animo umano, un personaggio complesso, denso di significati che invitano a riflettere sulla società di oggi da diversi punti di vista. La storia di Medea è stata scelta da così tanti autori per la sua ambiguità di fondo: si strazia e arriva al delitto per motivi che è possibile conoscere solo in parte. C’è poi il motivo di una civiltà al tramonto (come l’attuale civiltà occidentale), con costumi che si stanno incrinando e disfacendo come statue, destinate ad essere infrante da popoli giovani, feroci, determinati, che sono stati offesi e ricercano la loro libertà anche con la prepotenza ed il delitto. I temi sono infiniti. Non è possibile esaurirli con una messinscena. Però si cerca di sfiorarli e alludervi, presentandoli sotto forma emozionale, come deve fare il teatro e la musica, trasferendoti emozioni e invitandoti a pensare. Ammesso che sia possibile far riflettere il pubblico d’oggi».

Tra i temi, ovviamente, c’è quello di essere una vittima della “paura dell’estraneo”, una straniera in terra straniera che viene vista come un pericolo e che, alla fine, lo diventa.
«Certamente, il comportamento di Giasone, Glauce, Creonte o del popolo di Corinto sono paragonabili agli atteggiamenti insofferenti, a volte addirittura criminali, di resistenza e paura all’ignoto, al nuovo, agli immigrati, che ci toccano da vicino».

Che donna è la sua Medea?
«In Medea si possono individuare motivi nobili, come la conculcata, l’offesa, la donna che si rifiuta di dare dei figli ad un mondo maschilista. Tuttavia, non la vedo come un’eroina proto-femminista. Molti poi scelgono di enfatizzare le motivazioni ignobili come la gelosia, ma io non condivido questa lettura. Mi sembra una banalizzazione rispetto a uno scavo più profondo nel mistero della natura umana. E poi in quest’opera la platea di oggi si confronta con la cavea di ieri. Il discorso è complesso: riproporre una soluzione di tipo fintamente filologico sarebbe stato sbagliato, perché la platea è cambiata, ma nel contempo nulla è mutato nell’animo umano».

È un’opera di difficile esecuzione, e per questo poco rappresentata nei teatri d’opera italiani. Che accoglienza ha ricevuto da parte del pubblico catanese?
«Mi hanno detto che, alla prima, è stata particolarmente buona. Non che io non fossi presente, ma ogni teatro ha le sue reazioni che vanno misurate dai frequentatori abituali. Ad esempio la percezione di un trionfo, che ho avuto con La Scala a Mosca o a Tokio, non può misurarsi con le reazioni del pubblico nei teatri italiani. Ma mi sforzo di misurare gli esiti in base alla risposta abituale delle platee. Per Catania quello di ieri sera è stato, quindi, un bellissimo successo».

E per lei?
«Io sono scontento. A mio avviso, si poteva e doveva fare meglio. Non credo che si sia particolarmente notato e penso – lo spero – che il pubblico non sia rimasto deluso. Tuttavia ci sono alcuni fatti tecnici e alcuni modi interpretativi che con una maggiore organizzazione, più tempo e calma, con un periodo di prove adeguato – non parlo di dedizione – potevano risultare migliori. Ma questo forse fa parte delle insoddisfazioni di ogni volta».

Nella sua lunga e prestigiosa carriera, accanto al lavoro di attore e di maestro di attori, lei ha sempre alternato la regia per il teatro di prosa e quella per il melodramma, un po’ sulla stessa scia del grande Giorgio Strehler. Che differenza riscontra fra la regia per la prosa e per il melodramma?
«Da un certo punto di vista non c’è alcuna differenza perché si tratta di accostarsi a un classico, o a un lavoro qualsivoglia, e proporlo in maniera che il pubblico si possa confrontare, traendone delle emozioni. Dal punto di vista tecnico è tutto diverso, dalle metodologie di prova al risultato. Ti racconto la mia storia. Io facevo l’attore, poi ho debuttato come regista di prosa al festival di Spoleto e subito mi hanno proposto la prima regia lirica, ma ho rifiutato perché pensavo che non c’entrassi niente con quel mondo e non avessi la cultura sufficiente. Quando finalmente accettai, scopersi che proprio quello è il mondo nostro, di noi italiani. Ci viene dalle viscere! E mi diverto molto a fare la lirica, parimenti alla prosa. In quest’ultima il regista è il fulcro che decide tempi, suoni, luci, colori, ritmi. Ma d’altro canto la musica è un aiuto. Per cui la lirica, nonostante sia più difficile nella struttura e nell’organizzazione delle prove, ti agevola perché ti fornisce quel grande contributo emozionale della musica. Io comunque cerco sempre di alternare i due generi, perché rischio di sentirne la mancanza».

Lei, che catanese non è, conosce e ama come pochi la cultura siciliana. Da dove deriva la sua passione per la nostra città?
«La amo e la odio. Tutto iniziò nell’anno 1976 con Mario Giusti, allora direttore del Teatro Stabile che mi propose di venire a Catania, ma rifiutati perché non la conoscevo, e lui rispondeva “Vieni! Tu sei mitteleuropeo! E poi vedrai che i nostri attori sono di una generosità incredibile”. Quindi accettai e scopersi un mondo meraviglioso, e un repertorio meraviglioso, e degli attori meravigliosi, da Turi Ferro ad un’infinità di nomi che potrei elencare con rinnovato affetto ed ammirazione. Poi le ultime vicende mi hanno amareggiato e addolorato e con Catania non ho più il rapporto felice che avevo un tempo. Sono spesso in disaccordo con i catanesi intesi come collettività, però conservo molti amici… e anche un amore».

Prevede di fare altre regie per il Teatro Stabile di Catania?
«Beh, non dipende da me. Non credo che sia attualmente possibile. Però chissà cosa succederà in futuro».

 

Articolo di Benedetta Motta

Redazione

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