Taser, al via la sperimentazione anche a Palermo Exodos: «Una nuova arma non è buona soluzione»

«Siamo entrati in una fase storica ormai cupa, questa ne è l’ennesima dimostrazione». C’è un po’ di sconforto nelle parole di Fabrizio Giannola. Una riflessione, quella del volontario della comunità Exodos, condizionata da una delle novità più recenti del neo «governo del cambiamento», quella adottata appena una settimana fa con il decreto che dà il via alla sperimentazione del taser. La cosiddetta pistola elettrica infatti sarà data in dotazione alle forze dell’ordine inizialmente di undici città. Tra queste c’è anche Palermo. L’obiettivo è quello di bloccare una persona violenta senza dover ricorrere alle armi da fuoco. «All’interno della nostra comunità, di matrice cattolica e impegnata anche nella tutela dei diritti umani e nella difesa degli ultimi, la notizia sulla sperimentazione del taser è stata accolta (come è giusto) con opinioni diverse. Ogni notizia, dal fenomeno dell’immigrazione al taser dimostra come si è persa l’idea di comunità fondata sulla fiducia reciproca».

E il volontario, dal canto suo, apre la strada a una preoccupazione sempre più sentita: «Si sta facendo avanti una società del sospetto, del rifiuto di qualsiasi cosa non sia nota – spiega ancora Giannola -. Questo non vuol dire rinunciare a difendersi, ma nello stesso tempo l’introduzione di un’altra arma non mi sembra una soluzione. In particolare la minore offensività a mio parere potrebbe tradursi in una maggiore disinvoltura nell’utilizzo, basti guardare alle esperienze estere». Oltreoceano, infatti, la pistola elettrica trova un uso piuttosto ampio. E sono tanti gli episodi denunciati da Amnesty International in cui proprio il taser ha provocato la morte di chi è stato raggiunto dalle sue scariche elettriche. «Questo strumento è figlio di un tema ben preciso, il sospetto e la sfiducia verso l’altro – ribadisce il volontario di Exodos -. Sono fenomeni che dimostrano come la cultura della post-verità la faccia da padrona. Basta guardare gli indici di settore, rilevano tutti che negli ultimi anni la piccola criminalità è in netta diminuzione. Insomma, non so se serva il taser, quello che serve certamente è un po’ di desiderio di verità e apertura al nuovo, all’ignoto che a volte è meno pauroso di quello che si creda».

A fare da eco alla riflessione di Giannola sono, d’altra parte, anche i numeri e i casi tirati in ballo proprio da Amnesty, che non è nuova all’argomento taser. «Già dalla campagna sulle violazioni dei diritti umani in USA del 1999 le nostre ricerche portarono alla luce come quest’arma costituisca uno strumento carico di rischi per la salute dei cittadini», spiega infatti Liliana Maniscalco, responsabile di Amnesty Sicilia (che conta 18 gruppi). Anche lei mette subito in guardia. «Sebbene sembri che queste pistole abbiano una serie di vantaggi, è bene infatti segnalare come nel Nordamerica (Usa e Canada), dal 2001, il numero delle morti direttamente o indirettamente correlate ai taser sia superiore al migliaio. Nel 90 per cento dei casi, le vittime erano disarmate». Malgrado infatti questa sia classificata come un’arma da difesa e non letale, esistono sul tema studi medici concordi nel ritenere che abbia avuto conseguenze mortali su soggetti con disturbi cardiaci o le cui funzioni, nel momento in cui erano stati colpiti dal taser, erano compromesse da alcool o droga o, ancora, che erano sotto sforzo, ad esempio al termine di una colluttazione o di una corsa.

«Inoltre – dice ancora Maniscalco -, il taser può rilasciare con facilità scariche multiple, che possono danneggiare anche irreversibilmente il cuore o il sistema respiratorio. Amnesty ritiene pertanto che prima di mettere a disposizione delle forze di polizia questo tipo di arma andrebbe effettuato uno studio sui rischi per la salute a seguito del suo impiego e andrebbe garantita una formazione specifica e approfondita per gli operatori che ne verranno dotati, in linea con gli standard internazionali e in particolare con i principi guida delle Nazioni Unite sull’uso delle armi da fuoco da parte degli agenti di polizia». E a proposito di formazione degli agenti che potranno usufruire di questa nuova arma, sono molte le domande che ad oggi restano aperte. «Noi non ne sappiamo nulla ancora», rispondono candidamente dalla questura palermitana. La sperimentazione, insomma, sarà lunga e sembra che, a distanza di appena una settimana, ci sia ancora ben poco di concreto.

Gli interrogativi, intanto, restano comunque in sospeso e in attesa di risposta. «Ma esattamente lo scopo qual è? – si domanda ad esempio Donatella Corleo, militante palermitana del Partito Radicale -. Mi spaventa l’introduzione di ogni tipo di arma in genere, mi disturba parecchio. Ma anche a livello puramente razionale, il rapporto qualità-prezzo qual è? Quanto costa cioè prenderle, fornirle, formare gente? Perché piuttosto non potenziano le forze dell’ordine con altro, anziché con nuove armi? Tutto questo non coincide col mio modo di pensare la politica della sicurezza». Un radicale, si sa, e lo ricorda anche la stessa Corleo, è un «non violento per definizione. Si farebbe ammazzare piuttosto che sparare a un altro». E rassicura: «Non è retropensiero, il mio. Manon possono non chiedermi se questa decisione adottata dal Viminale non sia un nuovo modo di produrre armi. Secondo me andrebbero tolte quelle che già ci sono».

E il via alla sperimentazione del taser le fa tornare in mente anche lo scandalo di qualche anno fa dei braccialetti elettronici, strumento di controllo a distanza dei detenuti applicato, dal 2001 al 2013, a meno di venti reclusi e costato la bellezza di 120 milioni di soldi pubblici. «Le statistiche non dicono molto, non abbiamo dati. Insomma, quali sono i vantaggi dell’usare questo strumento? Se fosse solo un modo per sovvenzionare ulteriormente i fabbricanti di armi? – insiste Corleo -.Se non feriscono e non ledono è un conto. Ma cosa c’è esattamente dietro?» .

Silvia Buffa

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