Il secondo giorno inizia con la TaoClass insieme a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo (proprietari della casa italiana che, fin ora, ha contenuto il maggior numero di Oscar: sei, contro i cinque di Fellini). I due hanno lavorato con i migliori registi della storia: Fellini, Pasolini, Zeffirelli, Gilliam, Annaud, Risi, Comencini, Scorsese, Taymor, De Palma, Burton. Parlando di Scorsese, la coppia racconta come abbiamo convinto il buon Martin a girare Gangs of New York a Roma, piuttosto che in Romania grazie ad un pranzo a La Cascina. Per il resto sono aneddoti, simpatici racconti di come si sia trovato imbrigliato nella prima realizzazione da scenografo con Pasolini senza che nessuno lo sapesse, di come ogni film sia storia a sè, dei vari problemi in fase di produzione e progettazione: si pensi più al budget che si ha a disposizione che al valore del film.
La visione della perfezione da parte della coppia è stata molto interessante da ascoltare: per lei la perfezione doveva essere «rovinata» da qualche errore per darle realtà, per farla diventare accettabile all’umano, mentre per lui l’assenza di perfezione è l’unica scusa per giustificare qualche errore; per lui quindi la perfezione è raggiungibile e preferibile, per lei invece non è poi così perfetta alla fine, non nei film almeno.
Subito dopo pranzo, il film Ragazze a mano armata, per la regia di Fabio Segatori, per la sezione Filmaker siciliani (seppur nato a Viterbo). La pellicola narra delle avventure, a tratti tragiche, a tratti comiche, di tre giovani coinquiline corleonesi che vivono a Messina: una studentessa universitaria laureanda; la sorella più piccola che dovrebbe andare all’università, ma preferisce mangiare; e una terza, cugina delle due, che dovrebbe fare stage e corsi di formazione, ma preferisce conoscere le lingue e i corpi di avvenenti stranieri trovati in giro per la città. Dentro il film è presente tutto: dal thriller alla commedia, passando per l’action e il gangster movie; quello che manca, oltre ad una sceneggiatura degna di questo nome, è una regia che sappia trasmetterci le emozioni oltre le discrete attrici (gli uomini in questo film sono o stronzi, o trafficanti di armi, o idioti). I movimenti di macchina sono minimali e si fermano a qualche timelapse, un dolly al centro di Messina, qualche carrellata e un paio di camere a mano che seguono gli attori per strada. La storia sembra un po’ una rivisitazione in salsa scalora e acciughe di Piccoli omicidi tra amici di Boyle, con l’aggiunta di una comicità fatta di gesti ripetuti, forse troppe volte, di situazioni un po’ banali, anche se comunque divertenti. I personaggi sono poco caratterizzati e abbastanza stereotipati: sappiamo poco di loro e da subito capiamo ognuno cosa rappresenti: la ragazza dai facili costumi, la studentessa seriosa che fa da mamma a tutte e la sorella più piccola dedita al cibo più che ad altro, che sa amare solo chi la fornisce di cannoli; il colpo di scena a metà che ci dovrebbe far cambiare opinione su uno dei non-protagonisti non ha alcuna funzione e non dà niente al film. Il doppio finale è di una trashitudine infinita: giusto, banale e un po’ troppo buonista. Il titolo è un’omaggio al maestro newyorkese della mistica odissea spaziale, o meglio vorrebbe esserlo.
Di una tranquillità disarmante la masterclass con Valeria Solarino. Fin ora è stata quella con più pubblico, cosa strana visti i sei oscar della famiglia Ferretti/Lo Schiavo. Anche lei, come la Fogliazza, artista per vocazione ma attrice quasi per caso (avrebbe voluto fare un corso serale, ma poi ha partecipato ai provini per la scuola di teatro dello Stabile di Torino, entrandovi e studiandovi per tre anni). Gli intervistatori pongono domande simili a quelle del giorno prima: «Come si diventa attori?», «Il rapporto coi registi?», «Lamore per le parole?», «Limportanza dei premi?». Però cambiano le risposte: «Coi registi l’importante è capirsi, come non cambia», «Avendone uno a casa evito di parlargli di lavoro, e lui non si intromette». Ad una complessa ed incomprensibile domanda di un giornalista (credo) sulla difficoltà dei film d’autore di essere apprezzati, l’attrice di origini siciliane (tutti e quattro i nonni sono modicani, come il padre, mentre la madre è torinese) risponde con una gradevole distinzione tra i film blobbaste fatti con tanti soldi, chiari e semplici per tutti, e quei film non d’autore, ma più ricercati, magari poveri nel budget, che sono più difficilmente comprensibili ai più, non tanto per una difficoltà oggettiva, quanto per una diversa destinazione già in fase di creazione. Incomprensibile, quanto inutile, una lunga e approfondita digressione degli intervistatori (tra cui il direttore artistico del Festival Mario Sesti) e della Solarino, incalzata al riguardo anche da una domanda dal pubblico, sul tennis e sul parallelismo tra attore e tennista e tutte le possibili declinazioni, fino ad arrivare ad un «vorrei recitare come gioca Federer: dando tutto sé stesso, ma senza sudare».
Dopo cena si passa a Jersey boys, ultimo lungometraggio del maestro Clint Eastwood, immancabili i premi alle varie star e/o presunte tali presenti al teatro greco: Ertharin Cousin, del programma alimentare mondiale, riceve da Franca Sozzani, direttrice della rivista glam Vogue, l’Humanitarian Taormina Award per l’impegno contro la lotta alla fame nella repubblica del Centro Africa; Valeria Solarino riceve il cariddino dalle mani di Matteo Marzotto (lì in qualità di non-si-è-capito-bene-cosa); dalle mani del sindaco di Taormina Eligio Giardina a quelle di Paolo Del Brocco, a.d. di RaiCinema, è andato un altro Taormina Awards. Unici degni di nota per una kermesse cinematografica sia i premiati che i premiatori dell’ultimo premio: Avi Lerner ha consegnato il Cariddino d’oro a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo (simpaticissimo il siparietto di Ferretti, che non sapendo dove mettere il microfono lo ha inserito all’interno del premio, usandolo come un pratico supporto, che ha promesso collocherà tra i sei Oscar).
Finita la premiazione, come di consuetudine ormai, il parterre si è svuotato per la proiezione del film di Eastwood. Il film racconta la storia di Frankie Valli e dei The Four Seasons, dalla nascita fino alla totale consacrazione nella Vocal Group Hall of Fame. L’anteprima è europea (qualche giorno fa è stato già proiettato in Australia), ma non disperate: tra pochi giorni sarà anche nelle nostre sale, speriamo in tante. Il film è narrato dai protagonisti, direttamente in camera, che sfondano delicatamente la quarta parete, quasi senza che neanche lo spettatore se ne accorga. L’ambientazione è perfettamente curata, dagli abiti alle acconciature, da tutti gli strumenti musicali ad ogni accessorio presente in scena; ci si sente calati nel periodo profondamente e violentemente. Piccola osservazione personale: in una scena si vede una suora che beve (presumibilmente vino) di gusto, e poi rutta. Dopo questo, per me, Eastwood entra prepotentemente nella decina di registi migliori al mondo (anche l’autocitazione di Rawhide non è da sottovalutare). È sconvolgente la facilità con cui Eastwood passi di genere in genere, approdando ad una commedia musicale (che alcuni, apparentemente senza alcun motivo, definiscono «il primo musical di Eastwood»). Il film parte come una commedia musicale, si sposta poi sul melodramma, per tornare, col finalaccio mieloso, alla commedia musicale. Due parole sul finale: è troppo buono, non buonista, perché magari le cose sono andate davvero così, ma è fastidiosamente buono, esageratamente positivo, quei finali dove tutto va bene, dove tutto finisce al meglio per i protagonisti.
Il film critica, in maniera non troppo velata, il matrimonio e la famiglia, evidenziandone i pregi, ma anche i difetti. In alcuni casi sembra sia tutto colpa delle donne, la scena dopo invece ci si rende conto che la colpa che è solo de laggente e della sua cupidigia. La regia c’è, si vede, non dispiace, anzi quando serve enfatizza le immagini, senza infastidire: i movimenti di macchina sono perfetti, scelti sapientemente e usati solo quando è necessario. La musica ovviamente è meravigliosa, in alcuni casi il pubblico, alla fine delle performance sullo schermo, applaudiva insieme a quello del film, quasi commosso. Di certo non in molti conosceranno i brani dei Four Season, e neanche sapranno che Can’t take my eyes off you è la loro. I titoli di coda omaggiano il musical originale di Marshall Brickman e Rick Elice, su una sceneggiatura di John Logan, vincitore nel 2005 di un Tony awards. Piace, emoziona, è ben fatto, ben recitato e intrattiene per due ore abbondanti, se solo fosse di 20/25 minuti in meno si potrebbe parlare di capolavoro.
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