Sulle tracce del noir. Intervista a Mauro Marcialis

Abbiamo incontrato Mauro Marcialis, scrittore esordiente che col suo “La strada della violenza” ha sconvolto la tranquillità delle librerie italiane.

 

Marcialis lei è mai stato all’inferno? Perdoni lo slancio ma da ciò che scrive, e soprattutto dal modo in cui lo fa, sembrerebbe proprio di sì…

Faccio una breve escursione all’inferno ogni giorno, da anni. L’escursione consiste nell’osservazione dei fenomeni criminali attraverso le notizie di cronaca trasmesse dalla televisione o riportate su quotidiani e riviste. Non è un gran posto, l’inferno, ma siccome è qui che viviamo, la narrativa noir dovrebbe farsi carico di sorvegliare questa realtà e lo stile “urlato” adottato nel romanzo mi sembra il più funzionale a questo intento.

 

Nel romanzare la brutalità del martirio al quale sono sottoposte le due bambine, è rimasto lucido e imparziale o dietro quelle parole, dietro le reazioni del protagonista, il maresciallo Rollei, c’era il Marcialis padre, lo stesso che ha dedicato il suo libro ai figli nella speranza però, che loro non lo leggano mai?
Lo ammetto, dietro Rollei c’era il Marcialis padre, un padre disposto a tutto per amore della propria figlia. Il linguaggio crudo e disturbante adottato per descrivere le brutalità relative alla pedomania è finalizzato a trasmettere al lettore fastidio, disagio, malessere, tutte componenti che, nelle intenzioni, dovrebbero essere condensate in una forte presa di posizione contro la pedofilia, un crimine brutale, vile, purtroppo sempre più ricorrente in questa società borderline.

 
Reggio Emilia è davvero una città che, parafrasando il linguaggio americano, fa finta che l’elefante “in salotto” non ci sia?

In parte. Riguardo soprattutto ai fenomeni di microcriminalità, la percezione della cittadinanza reggiana negli ultimi anni è sostanzialmente cambiata e Reggio si è resa conto, al pari di altre città, di essere parte della giungla banditesca. Di contro, c’è scarsa attenzione e consapevolezza in relazione alle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’apparato economico. Parlo da osservatore e non da addetto, considerato che in merito si sono già espressi autorevoli personaggi delle istituzioni, tra i quali procuratori antimafia.

 

In Italia c’è l’esigenza di etichettare gli esordienti, ma lei rischia seriamente sin dalla sua prima opera di dare origine ad un nuovo filone: il noir emicranico ovvero pagine che puzzano di fumo, macchiate di caffè e rincoglionite dalle aspirine come in un maledetto lunedì mattina. Ne conviene?

Vero, l’esigenza dell’etichettatura in Italia è piuttosto evidente. Sono contrario a questa veemente catalogazione. In campo letterario, soprattutto nel “noir” si tende a raggruppare in questo calderone ogni sorta di genere, di emozione, di intenzione, per pura convenienza. E’ semplice marketing. Tale generalizzazione diviene spesso una scorciatoia troppo comoda per editori e critici. Devo ammettere, però, che la definizione che lei mi attribuisce è parecchio seducente e, in questo caso, l’accoglierei con molto piacere.

 

Dove hanno dormito in tutti questi anni i personaggi del suo romanzo?

Mi piace credere che i miei personaggi non abbiano mai dormito, considerato che sono la trasposizione di figure rappresentative di un certo tipo di immaginario ereditato sia dalla cronaca nera che da un certo tipo di narrativa poliziesca (Ellroy e Peace su tutti). Direi, però, che “loro” hanno soltanto sonnecchiato dentro una placenta, perché il tempo dell’effettiva scrittura corrisponde ai mesi di una gravidanza e perché, per come è stato concepito il romanzo, questi personaggi, al di là dell’iniziale caratterizzazione, non hanno subito altre manipolazioni, sono cresciuti “da soli”, per inerzia, dentro la storia.

Il fatto che il cane in affidamento sia una delle poche figure positive del suo libro è alquanto indicativo… Marcialis lei crede nella giustizia?

La figura del cane accompagna metaforicamente il concetto di violenza rivolta a chi, per propria natura (appunto i cani rispetto al loro padrone, i bambini) non si può difendere. C’è rivalsa e una sorta di giustizia dentro il percorso dell’animale ma è volutamente incanalato in un contesto domestico, in un angolo stretto, proprio nel tipico cantuccio di un cane poiché, se si allarga lo scenario, ci si rende presto conto di essere impotenti. E’ uno scenario pessimistico che rispecchia quello dell’autore e la giustizia, in questo senso, rimane un semplice termine retorico, in quanto la verità storica e processuale ne ha sancito più volte l’impalpabilità, l’insussistenza.

Risparmiandole il gioco degli specchi militare/scrittore piuttosto che scrittore/militare, le pongo l’ultimo nostro quesito: “La strada della violenza” non è assolutamente passato inosservato, i lettori lo hanno definito “uno dei migliori titoli degli ultimi cinque anni” e già c’è qualcuno che attende al varco la sua seconda opera, lei, dal canto suo, ha già deciso cosa vuole fare da grande?

Il romanzo è stato apprezzato, anche e soprattutto da molti addetti al settore editoriale. Il secondo romanzo, che è già pronto, scivola dal genere “noir” così come viene etichettato attualmente ma rimane parecchio furioso. Parla della spettacolarizzazione e della narcotizzazione mediatica. L’intenzione è di alternare un romanzo noir con un tipo di narrativa più leggera che mi consenta di approfondire tematiche che solleticano la mia curiosità. Da grande, sicuramente, continuerò a fare il padre e il finanziere ma ogni pausa sarà rivolta alla mia più grande passione, che è appunto la narrativa. 

Vittorio Bertone

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