Sui banchi per la Musica

Non sono sicura di voler iniziare da un foglio bianco.

Oggi è l’undici ottobre duemilaquattro. Un anno fa c’ero io, insieme agli altri, a seguire la prima lezione di questo corso. E allora come faccio a partire da zero? Dovrei dimenticare l’anno appena trascorso e recitare la parte della pseudo-giornalista curiosa che non sa cosa sta per accadere. Vi sembra una cosa possibile?

No, adesso torno su, chiamo qualcuno e gli dico di fare ‘st’intervista al posto mio.

La prof. irrompe in A2 esattamente alla fine di questo pensiero.

Vabè. Les jeux son fait. Rimango in prima fila, occhi puntati sulla cattedra.

I classici problemi col microfono, ma nulla di irrisolvibile. Lei si presenta. “Mi chiamo Emanuela Ersilia Abbadessa, sarò la vostra insegnante di Storia della Musica”. Mi torna in mente l’anno scorso, quando la prof. aveva precisato: “Ci tengo particolarmente al secondo nome, perché era il nome di mia nonna”. Ma niente dettagli sulle nonne, stavolta.

Scopriamo presto che il programma ufficiale graviterà attorno ai secoli Settecento e Ottocento, che ci “graviterà intorno” perché la prof. mette subito in chiaro una cosa: “A lezione possiamo aprire discussioni sulla musica che ascoltate, sui generi che amate o su quelli che proprio non vi vanno giù, possiamo parlare di quello che volete. Ad eccezione di Dj Francesco, però”.

Una presentazione multimediale, come una grande ruota panoramica, ci porta attraverso il secolo dei Lumi, davanti ai nostri occhi i volti di Mozart, Bach, Haydn (e non solo). “Che voi impariate a memoria le loro date di nascita mi importa, sì, ma fino a un certo punto. Quelli che ho intenzione di fornirvi sono degli strumenti che userete nella vita di tutti i giorni, la capacità di accendere lo stereo o la radio e capire fino in fondo cos’è che state ascoltando. Perché la musica non si studia solo sui libri”.

Il racconto di come l’ “associazione a delinquere più truffaldina della storia dell’università” aveva tentato (invano) di truccare, l’anno scorso, la prova in itinere è solo uno degli argomenti  proposti dalla prof. che suscitano il sorriso in aula. Mi accorgo che da un anno fa non è cambiato molto: la lezione continua a essere un incontro tra amici, la cattedra continua a non essere una barriera. Neanche la vediamo, quasi (anche perché la prof., a un certo punto, fa il giro e ci si siede sopra).

E non la vedono i miei colleghi. Quando chiedo le loro impressioni, mi rispondono tutti la stessa cosa: “La prof. sembra molto disponibile, il corso sembra bene organizzato, poi, insomma, si vede che lei è preparata”. Unica pecca, qualcuno avrebbe preferito studiare il Novecento, perché “quei due secoli sono troppo lontani da noi”. Come la prof. riuscirà a dimostrare che in realtà non lo sono, lo vedremo nelle prossime puntate.

 

A lezione finita, aspetto che la solita cerchia di dubbiosi abbia avuto i suoi chiarimenti, quindi pongo direttamente alla professoressa le mie domande.

“Qual è la difficoltà maggiore quando si hanno di fronte studenti di primo anno, all’università per la prima volta?”.

“Il problema più grande delle matricole è che sono poco autonome, hanno bisogno che qualcuno dica loro esattamente cosa studiare, in che modo, che gli si imbocchi tutto, insomma. E poi, ma questo purtroppo è un problema anche dei ragazzi più grandi, spesso e volentieri, c’è l’ignoranza cronica. A volte mi stupisco di quanto basso riesca ad essere il livello di preparazione di gente che è al secondo, terzo anno di università. Molti, troppi studenti mancano di curiosità, di motivazione, non riescono ad andare oltre quello che leggono sui libri di testo, non si guardano intorno. Questo mi rattrista. E di queste mancanze sono affetti studenti, ma anche insegnanti, di un po’ tutto il Paese: ho avuto la possibilità di vedere come funzionano molte università italiane e, davvero, alcuni atenei sono in condizioni allarmanti, ho visto insegnanti che non hanno la più pallida idea di cosa sia una lezione. Perciò mi ritengo fortunata a lavorare qui a Catania, e anche voi lo siete. Ma dovete rendervi conto che oggi avete a disposizione strumenti di supporto eccezionali, Internet prima di tutti, quello che manca è la voglia di cercare”.

“Cosa le viene in mente se dico ‘la musica come terza lingua’?”.

“La musica è una lingua a tutti gli effetti, è uno strumento comunicativo molto potente, se usato bene. Per questo voglio insegnarvi ad ascoltare con orecchie attente, perché siate preparati se un giorno il primo Adolf Hitler di turno cercherà di convincervi che la musica di Wagner era antisemita”.

 

Noemi Coppola

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