«Non è possibile che io sia l’autore della strage di Capaci, io mi trovavo alla scuola di polizia». Una replica secca, quasi sussurrata tenendosi a debita distanza dal microfono, quella di Giovanni Peluso, l’ex poliziotto tirato dentro il processo d’appello Capaci bis di Caltanissetta. È qui che questa mattina l’uomo si è presentato scortato dai carabinieri, per il fatto di non essersi presentato in aula in seguito alle precedenti convocazioni, per rispondere delle accuse che gli muove il collaboratore di giustizia Pietro Riggio. Che indica l’ex funzionario addirittura come uno degli esecutori materiali della strage di Capaci del 23 maggio 1992.
Ma Peluso biascica poche frasi, raccolte come dichiarazioni spontanee e poi si avvale della facoltà di non rispondere, in quanto indagato di reato connesso. «Non conosco dettagliatamente le dichiarazioni di Pietro Riggio, non so che cosa ha detto, poi lui può dire quello gli pare – ha aggiunto l’ex poliziotto -. Ma non è possibile che io sia l’autore di quella strage, mi trovavo altrove, io questo ho dato come giustificazione, la procura sta facendo ulteriori accertamenti per verificare la mia posizione. Mi dispiace ma non sarei cosa rispondere alle domande». Dal canto suo, l’ex funzionario, indagato dalla procura di Caltanissetta per concorso in strage e associazione mafiosa, ha denunciato Riggio per calunnia, proprio rispetto a quelle dichiarazioni che lui non conoscerebbe integralmente.
«Ancora Brusca è convinto che il timer l’ha schiacciato lui». È solo una delle frasi con cui quell’ex agente, nell’ambiente conosciuto come il turco o lo zozzo, avrebbe impressionato Riggio, secondo la ricostruzione fatta recentemente dal collaboratore. Che di Peluso sembra conservare un ricordo nitidissimo. «Da quello che so – ha detto ai magistrati -, per otto anni è stato al Sismi, però si è occupato sempre di lavori sporchi». A raccontare questo dettaglio in particolare a Riggio sarebbero stati i compagni di cella dell’ex poliziotto. «Era un tipo operativo – dice ancora -. Non l’ho mai visto venire con una macchina propria. Si faceva lasciare, poi lo riaccompagnavo io. Sempre alla stazione degli autobus o a quella dei treni».
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