Diverse
telefonate di soccorso via satellite. In cui però i migranti non riescono a comunicare con la sala operativa della Guardia costiera di Roma. Il tempo di attesa in mare che si prolunga e l’impatto con la nave mercantile portoghese King Jacob. È la notte del 18 aprile del 2015 quando un barcone stracolmo di persone naufraga a 94 miglia dalle coste libiche. Un evento con un numero imprecisato di morti, compreso tra 700 e 900, che viene etichettato come una delle più grandi tragedie avvenute nel mare Mediterraneo durante il ventunesimo secolo. I superstiti alla fine saranno soltanto 28, compresi Mohammed Alì Malek e Mahmud Bikhit. Un tunisino e un siriano che, secondo le autorità italiane, sono gli scafisti e i colpevoli della strage. Il loro destino è affidato alle valutazioni della giudice Daniele Monaco Crea, che dovrà decidere nel processo con rito abbreviato sulle accuse di strage in mare, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La lettura del dispositivo, prevista per oggi, è slittata al 13 dicembre.
Dopo più di un anno
MeridioNews è in grado di ripercorrere gli attimi precedenti all’arrivo dei soccorsi grazie alla registrazione delle telefonate tra i migranti e i soccorritori. Audio esclusivi che sono stati depositati tra le prove del processo. Il problema principale che emerge nei dialoghi è quello della comprensione della lingua. La guardia costiera parla soltanto in inglese ma i migranti non riescono a capire. «Abbiamo bisogno dei numeri che indicano la vostra posizione», chiedono da Roma. Dall’altro lato della cornetta si sentono soltanto rumori e qualcuno che con difficoltà prova a farsi capire. «La nostra posizione?», chiedono. «Numero per numero», rispondono dalla Guardia costiera. Per velocizzare le operazioni sarebbe bastato leggere le cifre sul telefono Gps che indicano latitudine e longitudine ma chi ha quel telefono in mano continua a non capire. Gli agenti insistono con le richieste e chiedono l’aiuto di un naufrago che riesca a capire l’inglese. Dopo diversi minuti qualcuno comprende e inizia con il dettato numerico che viene appuntato dal soccorritori. Quando da Roma però cercano di ripetere l’identificativo, il segnale torna a essere disturbato e la linea cade definitivamente.
Sulle responsabilità del presunto comandante della nave Alì Malek, accusato di avere
provocato la collisione mentre la nave cargo si avvicinava per soccorrere i migranti, nutre diverse perplessità il suo legale Massimo Ferrante. L’avvocato è stato l’ultimo a prendere la parola durante il processo, cercando di smontare le accuse della procura di Catania e la richiesta di condanna a 18 anni avanzata dai magistrati Andrea Bonomo e Rocco Liquori. Tra i punti sottolineati c’è l’assenza delle registrazioni nella scatola nera di King Jacob ma anche quello della giurisdizione. L’Italia infatti, stando alla posizione di Ferrante, si sarebbe spinta oltre le sue competenze territoriali. C’è poi il mistero delle manovre che la nave cargo ha effettuato per salvare i migranti. La procura ha sempre escluso ogni responsabilità ma i legali, compreso l’avvocato di Bikhit Giuseppe Ivo Russo, parlano di una «corresponsabilità colposa del mezzo».
Il
relitto del peschereccio è stato in fondo al mare per diversi mesi, salvo poi essere recuperato attraverso un’operazione costata diversi milioni di euro, voluta dal governo italiano ma senza nessuna attinenza con l’inchiesta giudiziaria. Il natante è stato trasferito ad Augusta, mentre sui corpi dei superstiti si è proceduto, con molte difficoltà, all’esame del Dna per il riconoscimento. Dopo una prima ipotesi di spostamento a Bruxelles e Milano, il relitto sembra destinato a restare, non senza polemiche, nella città megarese. Il comitato 18 aprile vorrebbe istallarlo nei pressi di una chiesa in una zona da ribattezzare giardino della memoria. Ipotesi che però non trova d’accordo la Rete antirazzista catanese che non condivide la scelta di «una chiesa o qualsiasi altro luogo di culto poiché in quel naufragio hanno trovato la morte persone di diverse religioni».
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