Stefania Noce, la storia in un documentario «Per raccontare chi era, lontani dai cliché»

Trentacinque minuti e tante testimonianze, «un documento più che un documentario», che sarà proiettato oggi pomeriggio, alle 18, nell’aula Stefania Erminia Noce dell’ex monastero dei Benedettini. La prima volta che il regista Bibi Bozzato ha sentito parlare di un film che raccontasse la storia di Stefania Noce, la giovane donna uccisa a 24 anni dal suo ex fidanzato Loris Gagliano, insieme al nonno (Paolo Miano, 71 anni) nella sua casa di Licodia Eubea, il 27 dicembre 2011, erano passati pochi mesi dall’omicidio. Era il maggio 2012 e il suo amico Ninni Noce, padre della vittima, era andato a trovarlo a casa sua, a Venezia. «Ninni mi chiese di raccontare chi era sua figlia, lontano dai cliché di chi voleva se ne parlasse come in una puntata di Amore criminale. Io rifiutai: non me la sentivo, c’era ancora troppo dolore, era il momento sbagliato», racconta Bozzato. La stessa richiesta è arrivata di nuovo a novembre 2012 e poi a gennaio 2014: «Nel frattempo c’era stata la sentenza di primo grado, e in Appello si stava tentando di far passare l’infermità mentale dell’assassino, allora ho accettato».

La locandina della proiezione

Una serie di interviste, agli avvocati della famiglia Noce, alla giornalista Rai che ha girato il primo servizio poche ore dopo l’omicidio, a Serena Maiorana, autrice del libro che parla di Stefania, a Gaetana Ballirò, nonna della vittima e unica superstite di quella mattinata di dicembre. «E poi, ovviamente, c’è Ninni, che si sente vittima due volte: la prima per quello che gli è stato strappato via, la seconda per quello che sta succedendo adesso». Con le perizie psichiatriche sullo stato mentale di Gagliano che si alternano. Tra queste, quella dei due periti nominati dalla Corte, Francesco Bruno e Bruno Calabrese, i quali sostengono che l’omicida fosse incapace di intendere e di volere al momento del fatto. «Sulla memoria di Stefania – dice il regista – si è fatto un grande lavoro, ma forse non è riuscita a emergere la sua figura a tutto tondo, perché era una donna fatta di idee, di ideali, di forza di volontà e di grandi passioni che la rendevano una persona». Non soltanto la «fidanzatina uccisa dal ragazzo». Perché del resto, come sostiene Ninni Noce nel documentario, «il femminicidio in questo caso è solo il punto di partenza di quella che è stata una vera e propria strage», riporta Bibi Bozzato.

«Nel mio lavoro sostengo una posizione precisa e do conto di un punto di vista definito, il mio, per cui non ho alcuna pretesa di obiettività», spiega il videomaker. Che aggiunge: «Faccio fatica a parlare di raptus quando il delitto veniva preparato da giorni e credo che certe cose accadano perché c’è una cultura di fondo che lo permette». Cultura intesa come «tutto ciò che è generato dall’uomo» e che viene assorbito come modo di pensare e di agire. «Il delitto di prepotenza, di prevaricazione sull’altro, in Italia quasi non esiste, non viene considerato: chi uccide viene trattato come qualcosa di estraneo a un organismo, come un virus da espellere, invece è il prodotto di questa società». Una posizione, la sua, molto simile a quella che il penalista Goffredo D’Antona ha espresso pochi giorni fa e che questo giornale ha pubblicato. «Ci basta pensare a tutte le volte che abbiamo sentito dire “Se mi tradisci ti ammazzo”, considerandolo quasi normale, senza pensare che di per sé sia una frase terribile».

Girata a marzo 2014, quella che sarà proiettata oggi pomeriggio nell’aula intitolata a Stefania è solo una copia ancora in lavorazione. «Finirò di aggiustare audio e colori probabilmente nelle prossime due settimane», afferma l’artista. Nel video, nulla è lasciato al caso, e anche la colonna sonora ha una sua importanza: «L’ha registrata Pippo Privitelli, un cantautore amico di Stefania, e l’ha dedicata a lei un po’ di tempo fa. Inserirla ha un suo significato». Così come ha significato che la distribuzione della pellicola non sia ancora definita: «Chiederò a Ninni come crede che sia più utile alla causa diffonderla, non c’è nessuna intenzione di farci un profitto. Questo, anche se ormai non va più di moda, è un lavoro militante».

Luisa Santangelo

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