Nel lontano dicembre 2009, lanciai sulle pagine web del nostro ateneo, uno sfortunato forum su quello che allora costituiva il DDL Gelmini, sfortunato perché ebbi l’onore di ospitare in questo forum soltanto un altro collega. Cito questi fatti non per richiamare eventi che riguardano la mia persona, ma perché sono convinto che da quel clima di disinteresse, di carenza di volontà, e forse perfino di incapacità di affrontare le tematiche di politica universitaria con un approccio globale da parte del mondo universitario (non credo che la situazione in altri atenei sia poi così differente), non ci si sia risollevati più.
Perfino nella fase più partecipata, caratterizzata da proteste condotte con varie modalità, io sono convinto che un vero dibattito non si sia mai svolto. Quel dibattito richiedeva una capacità di ripensamento complessivo sulle funzioni e le finalità dell’Università nel contesto della società contemporanea, soprattutto a partire dall’esperienza maturata negli ultimi venti anni, caratterizzati da novità normative di grande rilevanza, e segnatamente per quanto attiene al progetto di autonomia universitaria e per quanto attiene la vera e propria rivoluzione che ha riguardato i corsi di studio.
Questa capacità di riflessione globale e spregiudicata non mi pare ci sia stata, la reazione del mondo universitario alle iniziative legislative non è stata adeguata all’importanza del momento, anche per il ruolo ambiguo svolto dalla CRUI, chiamata a svolgere un ruolo nello stesso tempo di supporto tecnico al Ministro e di rappresentanza del mondo universitario, una rappresentanza però senza aver ricevuto delega alcuna.
La legge 240 che ci ritroviamo può a mio parere essere considerata “la peggiore legge possibile”. Essa conferma il modello decentrato a risorse centralizzate introdotto circa vent’anni fa, ma nello stesso tempo introduce una concentrazione del potere effettivo in poche mani in ciascuna Università, affidando maggiore potere ad un organo non elettivo come il Consiglio di Amministrazione, concentra poteri maggiori nelle mani di organi monocratici come il Rettore e la nuova figura del Direttore Generale, riducendo invece le competenze del Senato Accademico, unico organo ancora elettivo. In questo quadro complessivo, il mantenimento di alcuni elementi di partecipazione di tutti i docenti a istanze elettorali e gestionali come nei Consigli di Dipartimento, impone un modello sostanzialmente autoritario in cui la comunità docente nel suo complesso, pur priva di poteri effettivi, rischia di rimanere invischiata nella gestione quotidiana, e perdendo per questa via una propria autonomia, di non potere costituire un contropotere alternativo.
Ho voluto qui riportare, rinviando per motivi di opportunità ad altre occasioni di intervento e dibattito considerazioni più dettagliate ed anche più argomentate sulle tematiche generali dell’Università, un sintetico e in verità poco argomentato (per motivi di spazio) giudizio sulla 240 per le implicazioni che esso ha sulla fase di elaborazione e stesura del nuovo statuto.
A questo punto, con questa pessima legge, non possiamo che provare ad avere degli organismi che siano il più possibile rappresentativi. A questa esigenza, vedo che generalmente i miei colleghi rispondono con un modello di rappresentanza corporativa, in cui cioè siano le differenti aree disciplinari ad essere rappresentate, con l’implicito presupposto che ci siano interessi differenti, ed anche potenzialmente conflittuali, nelle differenti aree. Evidentemente, una rappresentanza di questo tipo risponde ad un’esigenza reale, che sarebbe vano nascondersi. Tuttavia, non sarebbe saggio ignorare che questa rappresentanza, che ho chiamato corporativa, non può da sola risolvere il problema più ampio della rappresentanza in senso lato.
Esiste anche la necessità di rappresentare, oltre gli interessi diversificati per aree, le differenti opinioni sulla politica universitaria. Questo aspetto è facilmente evidenziabile nel momento dell’elezione del rettore che, essendo organo monocratico, deve per definizione avere la capacità di rappresentare in sé l’intero Ateneo. E’ evidente in questo caso l’opportunità di evitare che prevalgano cordate disciplinari, di evitare cioè che la competizione avvenga tra aree differenti, ma che essa avvenga piuttosto tra visioni differenti di politica universitaria. Ricordo che anche nella magistratura, un ordinamento così cruciale dal punto di vista dell’equilibrio costituzionale dei poteri, esistono le differenti correnti: mi chiedo perché una tale articolazione non si osservi all’interno del mondo universitario.
Entrando quindi nel merito delle modifiche statutarie, propongo:
1) che il Rettore sia eletto con un meccanismo analogo a quello oggi vigente. Ripeto: questa opinione discende dalla constatazione che la legge, confermando la partecipazione di tutti i docenti e i ricercatori ai Consigli di Dipartimento, impedisce di fatto altre forme di rappresentanza autonoma, sostanzialmente di tipo sindacale, del personale docente.
2) che il meccanismo di designazione dei rappresentanti nel Consiglio di Amministrazione sottragga questo passaggio alla discrezionalità del Rettore pro tempore, imponendogli nomi, eventualmente in una rosa più ampia, definiti nelle differenti aree disciplinari.
3) che nel Senato Accademico quei due noni (massimo) dell’organismo che rappresentano i docenti in aggiunta alla rappresentanza dei Direttori di Dipartimento non vengano eletti come rappresentanza di aree, ma come rappresentanza di linee di politica universitaria. In verità, è solo in questa componente di questo organismo centrale dell’Ateneo che è possibile dare visibilità alle opinioni del corpo docente, l’unico luogo dove sia possibile dividersi su opzioni alternative di politica universitaria, tranne forse nei dibattiti che precederanno le elezioni del rettore, ma che avvengono soltanto una volta ogni sei anni. Questo è un punto che considero estremamente rilevante, l’unico mediante cui si possa garantire un certo confronto di idee all’interno dell’Ateneo, e trovo preoccupante che non sia ancora stato sollevato.
4) che i rappresentanti degli studenti vengano eletti con un meccanismo nuovo. Nell’attuale situazione, la rappresentatività di costoro è inevitabilmente scarsa, per l’ovvio motivo che è impossibile che un candidato sia conosciuto dall’intero corpo elettorale studentesco. La mia opinione in proposito è che ogni anno di corso di ogni corso di studio elegga uno o più rappresentanti al proprio interno, e tali elezioni dovrebbero svolgersi in concomitanza con lo svolgimento delle lezioni, in modo da far votare gli studenti “veri”, quelli che effettivamente partecipano alla vita dell’Ateneo. Tutti questi eletti dovrebbero convergere in un organismo unico di tutta l’Università, una specie di Senato degli studenti, che, tra altre competenze, avrebbe anche quella di costituire l’elettorato passivo per tutte le elezioni dell’Ateneo, incluse quelle riguardanti i loro rappresentanti negli organismi d’Ateneo, ed anche l’elezione del Rettore.
Aldilà delle questioni della composizione degli organismi dirigenti dell’Università, sorge la questione fondamentale dell’organizzazione dell’Ateneo in relazione alle funzioni di ricerca scientifica e didattica che esso è chiamato a svolgere. Dando per scontata la centralità che la 240 attribuisce ai Dipartimenti, rimane da capire quale debba essere la definizione e il criterio di ripartizione dei docenti in tali strutture. Un capitolo a parte è la definizione di un meccanismo efficiente di gestione della didattica, dando per scontato che saranno molto rari i casi in cui le competenze didattiche richieste per i corsi di studio possano essere rintracciate totalmente all’interno di una singola struttura dipartimentale.
Vorrei quindi iniziare dall’organizzazione didattica.
Qui, è inevitabile che le specifiche situazioni riscontrate in ciascuna area disciplinare debbano essere considerate con attenzione, in modo che l’organizzazione sia abbastanza flessibile da rispondere efficientemente a situazioni fortemente differenziate. Così, per quanto riguarda l’area chimica, appare evidente come l’opzione offerta dalla 240 della costituzione di strutture di coordinamento sembra non essere utile alla scopo per cui tali strutture sono state immaginate. In generale, per l’attuale Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, vi è un tale intreccio tra le differenti aree disciplinari che qualsiasi struttura di coordinamento fallirebbe nel suo scopo. Ciò naturalmente non esclude che in aree differenti tali strutture possano svolgere un ruolo efficace, e quindi nulla vieterebbe, almeno in linea di principio, che esistano dipartimenti senza e dipartimenti con strutture di coordinamento: si tratta di un elemento di flessibilità che si potrebbe mantenere. In ogni caso, se tali strutture non riguardano l’intero spettro dei Dipartimenti, è evidente che debbano esistere dei meccanismi di coordinamento aggiuntivi, non quindi facenti capo a tali strutture.
Nella prospettiva generale che lo Statuto non debba prescrivere limitazioni e vincoli non esplicitamente dettati dalla legge, mi chiedo se non sia opportuno concedere agli attuali Consigli di corso di studio, strutture che la legge non regolamenta, più ampie competenze. In sostanza, la mia opinione è che l’iniziativa di proposta di nuovi corsi di studio provenga da gruppi già definiti di docenti, anche facenti capo a differenti dipartimenti, e che essi chiedano a uno specifico dipartimento, individuato chiaramente in quello più coinvolto in base alla natura dello specifico corso di studio, di farsene carico, approvando a sua volta la proposta da inoltrare agli organi centrali dell’Università. La competenza del dipartimento esplicitamente prevista dalla 240 si concreterebbe appunto nel valutare tutte le proposte pervenute, valutandone la compatibilità, e selezionando tra queste in base a criteri propri, in riferimento alla disponibilità delle strutture necessarie e all’interesse scientifico-didattico del corso proposto. Questi stessi docenti sarebbero quelli di riferimento previsti dalla legge 270, e rimarrebbero incardinati a tale corso di studio fino a una loro esplicita richiesta di afferenza ad altro corso di studio.
I vantaggi di tale procedura sono evidenti, il dipartimento delibererebbe avendo la certezza di disporre, oltre che delle strutture, anche del personale necessario. In caso contrario, si dovrebbe utilizzare una procedura di attivazione per tentativi. Il dipartimento di chimica, ad esempio, valuterebbe l’opportunità di attivare un certo numero di corsi di studio, e si rivolgerebbe col meccanismo delle call ad altri dipartimenti. Se però i dipartimenti interpellati non dessero tali disponibilità, il corso di studio non potrebbe essere attivato: sarebbe quindi una delibera “sub iudice”, sottoposta, oltre che al gradimento degli organi centrali preposti, a una disponibilità di organi, come gli altri consigli di dipartimento, per altri aspetti per nulla coinvolti nello specifico progetto. Se immaginiamo il caso di una scarsità di risorse docenti, mettiamo di matematica, questo dipartimento sarebbe quello che in definitiva deciderebbe sulla possibilità di attivare un corso di studio in più di chimica piuttosto che di geologia. D’altra parte, sarebbe ben macchinoso un meccanismo che vedesse un organo come il senato accademico dovere entrare in tale problematiche, e che comunque sarebbe costretto a rinviare, allungando di molto i tempi, agli stessi dipartimenti per una nuova deliberazione.
La procedura che qui propongo quindi si avvantaggerebbe del decentramento della fase più critica, l’accertamento delle risorse docenti, agli stessi docenti coinvolti, pur, ovviamente, lasciando, come previsto dalla legge, ai dipartimenti in seconda battuta la competenza a deliberare in proposito, in attesa dell’assenso delle strutture centrali d’ateneo.
Inoltre, una volta messa a punto una procedura efficiente di copertura delle esigenze didattiche, si potrebbe con maggiore decisione andare verso la definizione di dipartimenti costituiti col principale criterio dell’accorpamento di settori scientifico- disciplinari più affini, che sembra meglio soddisfare alle esigenze di organizzazione dell’attività scientifica. Ciò non va naturalmente visto in opposizione all’esigenza sempre più avvertita di interdisciplinarità. Piuttosto, non credo che possano essere i dipartimenti, qualunque sia il modo di costituirli, a soddisfare tale esigenza, che invece va affrontata promuovendo accordi e raccordi interdipartimentali e, ove fosse richiesto, con misure ad hoc.
Andrei invece più cauto nel considerare più grande con più efficiente, e questo per due ordini di ragioni. L’uno è quello ovvio che al crescere della consistenza numerica del personale docente, crescono gli adempimenti da soddisfare, costringendo docenti a dedicare tempo prezioso a deliberare su questioni che non li coinvolgono direttamente, ad esempio al crescere dei corsi di studio che fanno capo a quel dipartimento. L’altro forse meno ovvio, che qualsiasi progetto organico deve fare riferimento alle strutture disponibili. Ad esempio, a cosa servirebbe creare un dipartimento i cui locali fossero suddivisi in due o più plessi distanti tra loro? Chi penserebbe che questa sarebbe una misura di aumento dell’efficienza? Questo aspetto dà la misura di quanto l’elaborazione di un buon progetto di individuazione dei dipartimenti sia complesso, non potendo prescindere da una contestuale ricognizione delle strutture disponibili. Spero che gli organi preposti rispettino questa contestualità, che cioè la definizione dei dipartimenti non avvenga su un piano esclusivamente teorico, dettato quindi da criteri di coerenza disciplinare, e che si pensi di potere rinviare ad una fase successiva la loro dotazione, in particolare riguardo ai locali.
* Vincenzo Cucinotta è professore ordinario presso la facoltà di Scienze dell’Università di Catania.
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