Intervengo nel dibattito sulla governance universitaria con alcune considerazioni che potranno apparire psicologistiche più che politico-accademiche, ma è difficile prescindere dalla propria area di studi quando si parla di argomenti tanto importanti…
La prima considerazione riguarda la composizione e il funzionamento degli organismi di governo. L’esperienza e la storia ci hanno insegnato che è percezione illusoria di democrazia quella che la identifica in ogni caso nella via esasperatamente ‘rappresentativa’ ai processi decisionali. Ci possono essere pessime decisioni, o prolungate deleterie non-decisioni, da parte di organismi perfettamente rappresentativi – vediamo tanti esempi al riguardo – mentre molti sistemi funzionano ottimamente prescindendo da essi, e senza scadere nella dittatura. Viene percepita invece come democrazia realmente partecipativa quella che consente di monitorare e verificare costantemente le decisioni e gli effetti che ne derivano: merce purtroppo molto rara, nell’Università e altrove, dove si usa eleggere tanto ma controllare poco o solo in modo fittizio.
Chi dirige – pur ascoltando i pareri di tutti – deve assumersi la responsabilità delle decisioni, restando però sempre disponibile alla verifica reale su come questa responsabilità viene usata. Dunque il dibattito penso vada indirizzato sui meccanismi di controllo oltre (più?) che su quelli di scelta / designazione / elezione, in alcuni casi già previsti dalle norme generali. Ad esempio, la legge già prevede che i due terzi del Senato accademico dopo due anni possano proporre al corpo elettorale di sfiduciare il rettore e con lui il Consiglio d’Amministrazione: potrebbero essere specificate nel nuovo Statuto altre garanzie di controllo reale e periodico, specie riguardo gli organismi non elettivi, con pieno coinvolgimento di tutte le strutture di base.
Riguardo gli accorpamenti di strutture didattiche e scientifiche, imposti dalla legge, essi andrebbero attuati nel modo più ‘ragionevole’ possibile. Non entro nelle discussioni sui criteri di omogeneità / affinità, già da altri ampiamente trattati. Sappiamo che sono concetti di natura abbastanza ‘elastica’ e gli elastici si possono stirare (entro certi ragionevoli limiti, ovviamente). Sottolineo invece un altro aspetto: nei componenti di una organizzazione le percezioni di cambiamento radicale possono incutere ansie e timori, paura di perdere un ‘vecchio’ consolidato – per quanto magari insoddisfacente – in cambio di un ‘nuovo’ incerto, complicato e poco prevedibile. Le novità sono difficili da accettare quando sono repentine e calate dall’alto, e i vissuti di insicurezza sfociano nel conflitto e nella inefficienza.
Sento in tanti colleghi di varie aree, e in giovani appena entrati nel sistema o alle soglie di esso, il timore dell’ignoto e dell’imprevisto comportato da ipotetiche grandi aggregazioni dove pensano di poter essere ‘deportati’ contro la loro volontà. Sensazioni certamente esagerate e basate sull’emozione: ma di esse va tenuto conto se vogliamo un’Università efficiente e produttiva, non timorosa e conflittuale, e perciò ingessata per lunghi periodi.
Se la prima parola chiave del rinnovamento è la responsabilità degli organismi (elettivi o nominati che siano), la seconda dovrebbe essere la gradualità, che implica – mediante opportune norme transitorie e possibilità di verifica – tempi e modi di adeguata sperimentazione di nuove ipotesi riaggregrative. Ogni cibo nuovo va lentamente assaporato, gustato, assimilato: pietanze precotte e da fastfood possono essere difficili da digerire e danneggiare la funzionalità dell’intero organismo.
* Santo Di Nuovo è professore ordinario di Psicologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania
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