Che la munnizza per le organizzazioni criminali sia oro non è cosa nuova. Per alcuni dei 15 arrestati nell’operazione Plastic free della Dda di Catania a trasformarsi in oggetto prezioso sarebbe stata la plastica dismessa dalle serre agricole della provincia di Ragusa, in particolare di Vittoria. Tanto prezioso da portare a mettere in atto una «sistematica intimidazione» implicita ed esplicita dei serricoltori e degli altri raccoglitori di plastica per garantirsi il monopolio assoluto nel settore. A fiutare il grande business della plastica delle serre e di tutto l’indotto che ruota attorno al settore trainante dell’economia iblea sarebbe stato l’ex collaboratore di giustizia Claudio Carbonaro, tornato nella sua città Vittoria con l’intento di ricostruire il clan.
Il primo episodio accertato dagli inquirenti risale al 2013. All’alba del 10 marzo, nel pieno centro cittadino di Vittoria due automobili vengono danneggiate a colpi d’arma da fuoco. «Ogni tanto qualcuno rompe i coglioni e gli abbiamo dato il buongiorno, vediamo come si alza». Così comincia la giornata per un addetto alle manutenzioni degli impianti di irrigazione di alcune aziende agricole che aveva parcheggiato le macchine sotto casa. Gli autori del gesto intimidatorio sarebbero i due cognati Antonino Minardi e Giuseppe Ingala (pregiudicati, entrambi finiti in carcere ieri). I proiettili, partiti da un fucile detenuto in modo illegale che affettuosamente chiamano «il bambino», sarebbero mirati a convincere la vittima a interrompere il rapporto con le aziende agricole per permettere al gruppo di mantenere il predominio nell’accaparramento dei rifiuti plastici delle serre.
Nel maggio del 2015 Emanuele Minardi (anche lui pregiudicato finito ieri dietro le sbarre) riceve la notizia che un estraneo al suo gruppo ha recuperato i teloni usurati rimossi durante un intervento di riparazione delle serre. Profondamente irritato, telefona al dipendente per rimproverarlo di non avere dato a lui quel prezioso materiale rinfacciandogli di avere provveduto per tutto l’inverno gratuitamente alla raccolta dei suoi rifiuti di plastica. «Ho fatto lo scupino», gli rinfaccia.
Durante la conversazione intercettata, Mirardi alterna toni concilianti a minacce. «Tu me lo devi dire a me, perché non so fino a che punto vuole arrivare questo (chi ha ritirato i teloni, ndr), che se si mette con me si mette con il diavolo. Perché poi mi metto la maschera. Io sono nato per fare la raccolta plastica e muoio con la raccolta plastica». Il serricoltore tenta di giustificare la propria scelta evidenziando il vantaggio economico (il concorrente, in cambio dei teloni si è offerto di realizzare la nuova copertura della serra a un prezzo ribassato). Poi, intimidito, lo rassicura sui futuri conferimenti. «Tu non ti preoccupare che il mangiare esce sempre per te». Poco dopo Minardi telefona anche a chi ha fatto il lavoro al posto suo. «Dove mangio io non ti intromettere. Vedi che te la passi male tu e se la passa male il produttore». L’interlocutore prova a calmarlo, si rivolge a lui chiamandolo «fratello» e sostiene di non essere interessato alla plastica. Chiusa la conversazione, Minardi riporta l’esito ai suoi parenti soci: «Gli ho fatto quattro urla ed è tutto a posto».
Qualche volta però le urla non bastano. E così, l’intimidazione passa attraverso le mani e i piedi. La sera del 3 luglio 2015 numerosi componenti della famiglia Minardi avrebbero messo in atto una spedizione punitiva in piazza Italia (detta ‘u cianu di l’Essu) contro un dipendente della ditta di Giambattista Puccio. Meglio conosciuto come Titta u ballerinu – epiteto guadagnato durante la sua carriera criminale per essere stato inserito sia nella Stidda che in Cosa nostra – che era già stato arrestato nel 2017 nell’operazione Ghost trash (rifiuti fantasma).
Dalle telefonate intercettate subito dopo, viene ricostruito il pestaggio. Calci e pugni contro l’uomo ritenuto colpevole di avere scelto Puccio piuttosto che loro. In passato, infatti, i Minardi gli avevano proposto di collaborare ma lui aveva preferito la concorrenza. L’intento della spedizione punitiva è duplice: da una parte, è fare in modo che la ditta di Puccio non eserciti più l’attività di raccolta della plastica dismessa dai serricoltori della zona di Vittoria; dall’altra, il gesto compiuto in modo plateale vuole rivendicare pubblicamente il monopolio assoluto nel settore.
Qualche mese dopo, a ottobre, sarebbero Salvatore D’Agosta e il cognato Gaetano Tonchi (anche loro entrambi pregiudicati ed entrambi in carcere da ieri) ad appiccare un incendio che distrugge la motrice di un autocarro di una ditta che si occupa di trasporti anche di plastica. Dopo i sopralluoghi compiuti nei giorni precedenti per pianificare l’attentato incendiario, la sera prima si accordano al telefono. «Quanto gli diamo fuoco a un camion e torniamo – dice D’Agosta al cognato – Già io c’ho messo la benzina». Un’operazione da compiere velocemente. Da alcune telecamere private della zona è stato possibile ricostruire che l’indomani i due sono arrivati sul luogo a bordo di uno scooter e con il volto coperto per mettere in pratica il piano.
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