Pomeriggio inoltrato. La statale Gela – Caltagirone è poco trafficata. Camion, trattori, sparute macchine. Ai bordi, prostitute nigeriane. Quotidianità di sempre. Se non fosse per alcune figure che si scorgono da lontano. Camminano costeggiando la strada, a gruppi di quattro o cinque. Sono migranti fuggiti dal residence degli aranci di Mineo. Sembrano affaticati, stremati. Alcuni corrono, come se fossero inseguiti da qualcuno. Poco dopo, una pattuglia dei carabinieri li sorpassa. Da ieri mattina molti di loro, scavalcando le recinzioni di sicurezza del cosiddetto villa della solidarietà (un “lager” lo ha definito il centro Astalli), si trascinano per le strade e i campi del calatino. Alcuni arrivano anche in paese aspettando in fila il proprio turno per salire su un autobus che li porterà lontano da lì. Molti sono diretti alle stazioni ferroviarie più vicine nel tentativo di salire su un treno che li porterà al nord Italia, forse in Francia dove, ci dice uno di loro, ci sono i suoi familiari. Scappano. In cerca di un futuro migliore, che non sia quello offerto all’interno del villaggio, magari col proposito di integrarsi in un luogo, imparando la lingua italiana e cercando di trovare un lavoro. Tutto questo è al di là di recinzioni che ghettizzano.
Ed è arrivando all’entrata dell’housing che si palesa la ghettizzazione. Molti ragazzi dall’interno del recinto si avvicinano alla rete. Chiacchierano. Ti invitano ad ascoltarli. E rispondono alle nostre domande. Chiediamo allora se vengono trattati bene. «Sì, molto bene» risponde Alì, afgano, mentre con la testa fa cenno di diniego. «Ci trattano benissimo» risponde l’amico tunisino alla sua sinistra.
Un altro, tunisino, soprannominato dai suoi amici che lo circondano «il pappagallo della Tunisia» ci provoca. «Cosa fate qui, voi riprendete. Voi non volete la verità». Poi si avvicina a un agente di polizia: «Chi sono quelli fuori? Sono qui per noi?». Si riferisce ai manifestanti di Forza Nuova che al di là dell’ingresso, a ridosso della strada, hanno sistemato i loro striscioni. “L’Italia non è un paese di immigrati” c’è scritto su uno di questi. Chissà se chi l’ha scritto ha fatto in tempo a parlare con i suoi nonni! Molti di loro hanno presidiato l’intero paese di Mineo, «distribuendo volantini per sensibilizzare la coscienza dei calatini» racconta uno di loro, fiero.
Dentro il centro non si può entrare. Serve l’autorizzazione della prefettura di Catania. «Molti non vogliono essere fotografati o ripresi. Si potrebbero creare tensioni che comprometterebbero l’ordine all’interno del villaggio» intima un altro agente. Non le creeranno sicuramente i manifestanti che, avvicinatisi anche loro, pongono domande: «Volete soldi, donne e ricariche telefoniche, giusto?». Quello che vorrebbero anche i presidianti. Solo che loro vivono fuori. I ragazzi del lager, dentro il recinto.
[Foto di Rosy Parrulli]
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