C’era una volta, in un posto lontano lontano, il piacere di studiare…
Vi racconto una storia.
Aspirante Designer e Futura Veterinaria sono due ragazze a caso, casualmente diplomate al liceo classico casualmente con ottimi voti, casualmente molto intelligenti e casualmente ambiziose.
L’una e l’altra, dopo cinque anni di lezioni su Mimnermo e Petronio, si sono dette che, finalmente, sarebbe arrivato il momento di dedicarsi a materie che le avrebbero appassionate più profondamente.
Le nostre due eroine si sono svegliate un mattino e hanno avviato le procedure burocratiche per realizzare il sogno tanto lontano: si sono iscritte ai test per le facoltà di loro interesse. Hanno pagato una tassa per sedersi ad un tavolo e segnare risposte potenzialmente sbagliate (o potenzialmente giuste) e hanno affidato alle risposte multiple il loro destino.
La strada per la realizzazione professionale è lastricata di buone intenzioni, no?
Facciamo quattro conti, ché pure se la matematica non sarà mai il mio mestiere (citiamo Venditti, che ormai c’ha fatto l’abitudine, pover’uomo) una testa che ragiona ce l’ho pure io.
Poniamo che l’immaginaria Facoltà di Scienze della Disoccupazione (immaginaria!) non apra i battenti a tutti gli studenti che fanno richiesta d’entrarvi. Magari, i posti disponibili sono soltanto 150 e i candidati 1500. Va da sé che solo un giovane volenteroso ogni dieci entri a far parte delle alate schiere universitarie.
Il giovane volenteroso di cui sopra conosceva il numero esatto di possedimenti coloniali della Gran Bretagna nella seconda metà del 1700, sapeva riconoscere, dalle prime dieci parole, un brano dell’opera più sconosciuta e più brutta di Ippolito Nievo, tra un po’ sarebbe anche stato capace di decodificare il genoma umano in venti minuti, preparando una torta ai mirtilli con la mano destra, stirando i panni con la sinistra, giocando a calcio con un piede, saltando la corda con l’altro, e segnando le risposte con la lingua.
Insomma, era un giovane volenteroso come tanti.
Gli altri 1350 ignoranti, milletrecentocinquanta bruscolini, tutti a casa. Le classiche braccia rubate all’agricoltura. E poi si lamentano che in Italia non ci sono più i contadini di una volta, quelli che la zappa era una naturale estensione del braccio: certo! Pretendono di fare l’Università, i giovani!
E poi, non sanno riconoscere quel brano là di Ippolito Nievo. Ippolito Nievo, signori miei, mica un Carneade qualsiasi.
Ora, torniamo da Aspirante Designer e Futura Veterinaria.
Hanno le facce tristi e non sanno cosa dovranno fare della loro vita. I test non li hanno superati ché, anche se erano molto motivate, preparate ed intelligenti, la graduatoria è spietata e, come tutte le cose, troppo lontana dalla meritocrazia.
Sì, perché la tizia che passando accanto al laboratorio di anatomia veterinaria ha esclamato “che schifo!”, quella è entrata. Il tipo che è convinto che la Reggia di Caserta sia un altro modo, italiano, per definire la Reggia di Versailles, anche quello è entrato.
E loro no. Si ritrovano il 13 Settembre, a un mese o poco più dalla chiusura delle iscrizioni nelle facoltà-mosche-bianche-a-numero-aperto, senza la più vaga idea di quello che potranno fare.
Hanno ipotecato la loro aspirazione lavorativa per giocarsi un terno al Lotto. E hanno perso.
Continueranno all’infinito i fautori del numero chiuso a ripetermi che si tratta di una selezione naturale alla darwiniana maniera. Peccato che, mentre costoro si dilettano di dialettica affermando le loro ragioni, a poco a poco, gran parte dei corsi di studio abbassa le saracinesche e chi arriva primo meglio alloggia, le casse gioiscono per il bottino non previsto ma sempre gradito (i test si pagano profumatamente, mi sembra giusto), e i non ammessi, fuori dai portoni, salutano con la manina.
C’era una volta, in un posto lontano lontano, il diritto allo studio…
Nota della Redazione. L’autrice dell’articolo è una giovane blogger (http://luisasantangelo.splinder.com) catanese. Il 23 settembre sosterrà la prova di orientamento della Facoltà di Lettere.
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