Le aziende catanesi convivono con il racket e non denunciano il danno subito per mano dalla mafia. E’ questa la realtà che emerge dallo studio commissionato dalla Provincia di Catania al Dipartimento di Scienze Sociologiche dell’Università di Catania, condotto su un campione di oltre 240 esercizi commerciali catanesi. Sfogliando le pagine del rapporto si leggono numeri imbarazzanti.
Tra gli imprenditori e i commercianti etnei quasi il 51 per cento ha preferito non rispondere ad un questionario somministrato nel rispetto dell’anonimato. Il 52 per cento dei non rispondenti è di sesso femminile, il 48 di sesso maschile. Suscita indiscutibilmente preoccupazione il fatto che la maggior parte dei non rispondenti, ben il 51 per cento, abbia un esercizio nella centralissima via Etnea, cuore del commercio catanese. Il 33 per cento lavora su viale Mario Rapisardi, mentre il 16 per cento di quanti si sono sottratti all’indagine gestiscono un’attività nella centro ricco della Catania delle boutique, ovvero Corso Italia.
Da quanto ancora emerso dalla ricerca, tra quanti non hanno risposto al questionario ben il 54 per cento si è dichiarato apertamente non disponibile alla rilevazione, l’imprenditore non è stato presente in aziende nel 45 per cento dei casi, mentre appena l’1 per cento ha deciso d’interrompere la rilevazione durante il succedersi delle domande.
E’ stato chiesto agli intervistati quali fossero i reati più ricorrenti nella zona dove svolgono attività. Ne è emerso che rapine (72 per cento) e vandalismo (51 per cento) sono gli atti più comuni. Spaccio e traffico illecito sono stati riferiti dal 25 per cento dei commercianti intervistati, mentre minacce, usura, incendi e manomissioni sono stati indicati come principali atti estortivi da una media del 13 per cento degli intervistati.
Dai risultati della ricerca il silenzio dei commercianti catanesi è lontano dall’essere considerato come il sintomo di un’attività vissuta nella normalità. Il silenzio è piuttosto assenso e indice della convivenza con il fenomeno in città. Come spiegato dagli studiosi coinvolti nella ricerca, Rita Palidda, Maurizio Avola e Davide Arcidiacono, il pagamento del pizzo è ancora un fenomeno garantito dalla presenza di particolari legami sociali che fanno di chi denuncia un infame e dei commercianti scelti per essere ricattati dalla mafia dei privilegiati, convinti d’essere protetti dal sistema malavitoso.
E’ questa una delle motivazioni per cui sembrerebbe impossibile scardinare un sistema in cui, all’opposto, ci sono i tempi lenti della burocrazia e della magistratura. Limiti ammessi in convegno dal Procuratore aggiunto del Tribunale di Catania Carmelo Zuccaro. «E’ vero, manca una certezza della pena – ha sottolineato – Il fatto è solo in parte frutto di una legislazione schizofrenica, perché pesa principalmente l’eccesso di garantismo. Vi è inoltre una condizione di debolezza del sistema giudiziario dovuto all’assenza di una visione strategica più ampia della politica giudiziaria, che non permette di cogliere l’esigenza dell fenomeno di essere debellato in una maniera corretta».
Non solo a Catania ma in tutta la Sicilia il racket sembra avere piede libero. A dimostrarlo sono i numeri snocciolati da Nello Musumeci, presidente della Commissione Antimafia all’Ars. «Nel 2013 le pratiche arrivate alla Regione Sicilia sono state 11, nel 2014 appena 10. Oggi l’estorsione è la principale attività di lucro della mafia e purtroppo il dato allarmante è che i nostri imprenditori continuano a pagare sempre nel silenzio. Non c’è ancora sufficiente fiducia nello Stato. Lo Stato deve convincersi che la lotta alla mafia non è soltanto un problema di polizia se poi non crea consenso sociale». Rivolgendosi direttamente agli imprenditori Musumeci ha detto: «Abbiate più consapevolezza del vostro ruolo, collaborate, siate propositivi, ma all’imprenditore non si può chiedere più del coraggio. Nessuno può pretendere che l’imprenditore faccia l’eroe, semmai siamo noi istituzioni a dover eliminare laccia e lacciuoli che stringono una vittima dell’estorsione ad aspettare anni prima di essere risarcita».
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