Ai Mondiali si gioca il derby di San Berillo. Sulla linea di centrocampo di via Pistone si guardano, da una parte all’altra del quartiere, la comunità senegalese e quella colombiana. Almeno prima che andassero in scena i chiassosi e colorati festeggiamenti per la Colombia, che supera la fase a gironi da prima classificata, battendo il Senegal per uno a zero. La squadra africana torna a casa a favore del Giappone, a punirla la nuova regola che premia chi ha preso meno cartellini gialli. «Forse possiamo ancora farcela», dice Mike, senegalese da 14 anni in Italia, prima di scoprire che no, il Senegal dalla Coppa del mondo esce oggi. Durante la partita tutte le attività si fermano, in religioso rispetto dell’unico evento che valga la pena seguire oggi: la partita.
Dalle porte delle stanzette al pianterreno si sente solo la voce dello stesso telecronista, moltiplicata decine di volte. Tra un balcone e l’altro ci sono gli striscioni con le bandiere del Senegal e, in fondo a via Pistone, c’è un solitario stendardo della Colombia. Accanto: una bandiera dell’Italia lasciata a sventolare, per spirito di comunità o per invidia. «La partita! È cominciata la partita! Corri», ci dice Mike, il primo ad accoglierci. «Io sono arrivato in aereo, volando, cara giornalista – continua il giovane – Sono nero e sono regolare». Lo dice ridendo, mentre mostra la sua felpa salviniana con la scritta Senegal e offre fette di melone, cercando di farsi spazio in uno stanzone affollato di connazionali. In trenta metri quadrati ci saranno una quarantina di persone, bambini e bambine inclusi.
Su uno schermo grande c’è Senegal-Colombia, su quello più piccolo Giappone-Polonia. «Signanu?», domanda, appena arrivato, un ragazzo catanese. «Tu chi sei? – gli chiedono – Senegal o Colombia». «Io? ‘mbare, Senegal!», replica quello. Sembra uno spot pubblicitario per l’integrazione, ma qui non ce n’è bisogno. Attraversando il quartiere, poco più in là, la porta di Palazzo de’ Gaetani, che ospita il Comitato cittadini attivi San Berillo, è aperta. L’interno è stipato di sedie e le prime file sono occupate da parecchie donne che lavorano nel quartiere. Tutte in maglia gialla, oggi non si lavora finché non finisce la partita. Subito dietro, una ventina di ragazzi gambiani e diversi altri senegalesi che non hanno trovato posto negli stanzoni più vicini all’incrocio con via Ventimiglia.
«Siamo tutti vicini, siamo tutti Africa», spiega Omar, vent’anni, dal Gambia. Dà il cinque, abbraccia tutti, tifa Senegal-Senegal-Senegal. Alla fine del primo tempo, da una porta poco distante parte una salsa a tutto volume. È un garage senza pavimento, con un televisore collegato a due casse poggiate su vecchie sedie di scuola. Sul mobile mezzo distrutto su cui è in bilico lo schermo c’è un foglio giallo di cartoncino e la scritta «I love Colombia». Dentro allo stanzone una quindicina di donne giunoniche aspettano, ballando, che la partita ricominci. «Muovi i fianchi, più sciolto», spiega una di loro – capelli ricci e lunghi fino a metà della schiena, occhi truccati di verde acqua, sorriso affettuoso – a un artigiano catanese sulla sessantina che balla con lei. «Lo so, lo so, seguo la musica, me l’hai imparato tu», risponde lui. «Io lavoro in via Ventimiglia, ma con la mia famiglia stavamo in piazzetta delle belle (ora piazza Goliarda Sapienza, ndr) – racconta – Poi non è rimasto più nessuno, ad alcuni hanno dato le case popolari, io sono rimasto qua».
È uno dei più accaniti sostenitori della Colombia. Quando un giocatore del Senegal toglie la palla a uno di quelli della Colombia, grida: «Figgh’i malasuttati» e attorno a lui parte una ola, condita da applausi. Poco dopo rincara la dose: «Ahi ahi ahi, Lazzaruni!». Le ragazze gli parlano in spagnolo, lui e altri uomini in dialetto catanese. E si capiscono alla perfezione. Un tavolino è pieno di bottiglie di birra offerte a tutti, quando la Colombia segna è un’esplosione di gioia. Che si mantiene costante fino al termine del secondo tempo, per lasciare spazio alla tensione dei minuti di recupero. Subito dopo è festa vera: la bandiera portata in trionfo tra le strade del quartiere, i canti, i balli. Un ragazzo con uno scooter rimane bloccato e partecipa ai festeggiamenti. Da Palazzo de’ Gaetani escono in fila senegalesi e gambiani in silenzio. Qualcuno viene abbracciato comunque. «Peccato», sospira Musa, 25 anni, dal Gambia anche lui. È arrivato in Italia nel 2015, è stato in comunità, poi ha trovato lavoro – in cucina, in una trattoria di carne di cavallo – e si è trasferito in una stanza in affitto. Ha un fratello che vive a Gela e altri due che vivono in Belgio. «Appena finisco con i documenti, vado in Germania – spiega – Mi piace qua, ma con Salvini e i manifesti che vedo su Facebook mi spavento».
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