Se un pomeriggio di primavera, uno studente

La spia rossa che mi guardava dal cruscotto non prometteva nulla di buono. Era un punto esclamativo, ma avrebbe dovuto essere interrogativo: il mio rapporto con ciò che è dentro il cofano è di assoluta indifferenza e disinteresse.
Io mi limito a dissetare la mia macchina dissanguandomi, lei si limita a trasportarmi quasi trascinandosi ormai.
Oggi questo tacito patto è stato rotto unilateralmente e senza preavviso. Anche questo, come altri, senza pagar dazio.
Alla fine di corso Italia un rantolo gemito singulto e poi il silenzio. Accosto. Apro il cofano, più come gesto scaramantico che altro, ma le mangrovie di tubi pistoni cilindri mi distolgono dal mio intento velleitario (quale poi?).
D’altronde la mia imperizia meccanica è atavica: da piccolo, quando i miei coetanei, che da non molto avevano smesso di gattonare, già riuscivano a smontare un motore con tempi da pit-stop della Ferrari, io gridavo eureka se con la molletta bloccavo un foglio fra i raggi della bici , surrogando così il potente rombo di una moto.
Dovevo lo stesso arrivare a Ibla. A piedi. A quell’ora, l’unica soluzione.
Anche Maometto alla fine si era deciso ad andare alla montagna, causa indisponibilità di quest’ultima.
Lo scenario che mi si apriva da largo Mazzini mi riconciliava con la sorte: le luci, gialle finalmente e non aridissimi neon, obbligavano occhi e gambe a percorrere la scalinata. Santa Maria delle Scale, alla mia destra, splendida ma offensiva col nuovo colore dei suoi due portoni, mi avrebbe accompagnato per pochi metri per poi lasciare posto e ruolo a sineddoche di case. A sinistra, la salita Commendatore ammirava stupita, ma non più di tanto ormai, la staticità dei lavori non in corso della chiesa all’angolo.
Con l’Idria alle spalle, un bivio mi coglieva alla sprovvista: destra o sinistra?
Qualcuno mi aveva detto che dopo Fiuggi bisognava rivalutare la destra: per così poco, potevo tranquillamente imboccare la salita a dritta e salvare la par condicio.
Avevo ancora un po’ di tempo a mia disposizione e potevo dar sfogo e sazio alla mia curiosità.
A patto di non perdermi, epigono di Pollicino senza briciole ad indicarmi la strada. Un rumore acciottolante di piatti, una luce strana, un’ombra seducente, m’indirizzavano verso l’uno o l’altro anfratto. A poco a poco avevo già impilato Palazzo Nicosia, Via Floridia, Porta Walter, la chiesa di Santa Lucia, una locanda chiamata ‘a Putia che mi avrebbe annoverato fra i propri fedelissimi se l’insegna promettente sapori tipici non avesse dato asilo ad un estraneo indirizzo internet (il mio diniego è esempio di etica o estetica peristaltica ?), il Chiasso Oscuro, folgorante, ma falso, esempio di sinestesia, un numero indefinito, come gli uccelli per Borges, di casette disabitate (perché allora quella sensazione di essere osservato? da quali occhi?), di stradine ridotte al minimo sindacale per il passaggio, percorse solo da graffitari timidi, di B&B (ma quanti sono? forse più dei turisti? ). Avevo mentalmente completato l’assioma geometrico del segmento: era sì la distanza più breve fra due punti, ma anche la più noiosa.
La mia Itaca restava pertanto ancora lontanissima. Un gatto si era promosso compagno di viaggio. Gli proposi uno scambio di ruoli: avrei io seguito lui. Presi il suo silenzio per un sì. Per i primi metri sembrava accontentare le mie curiosità. Muto cicerone, si fermava tutte le volte che un mio ghiribizzo mi costringeva ad una sosta: una frase in greco sul muro, un odore strano, una scalinata che, per ripidità, sarebbe stata guardata con diffidenza anche da una capra alpina.
Fu lui ad esaudire la mia richiesta di veder almeno un’anima viva?
Una vecchina – imprecisabili i lustri da sommare o detrarre dal secolo per saperne l’età – era uscita di casa per portare i resti dei propri pasti (dalla sua mole non credevo fosse rimasto più di tanto) ai quadrupedi del quartiere. Li amava sicuramente, i quadrupedi. Di certo non i bipedi, o almeno non il bipede che le si parava davanti: solo l’ora tarda ci differenziava dal rifacimento di un “Mezzogiorno di fuoco” vernacolo.
« Buonasera ».
Avevo sparato io il primo colpo. A vuoto. A lei il primo round. Giocavo del resto fuori casa.
La sua bonaria diffidenza mi circondava: d’altronde come spiegarle che ero lì senza motivo, o, almeno, che il motivo stava tutto intorno a noi. Che forse anche lei lo era, un motivo. Che per un attimo le lancette del mio orologio si erano sciolte come nei quadri di Dalì, annullando il tempo – l’eternità ci avrebbe alfine mutati in noi stessi?-. Che ero stato avviluppato, vittima volontaria, dalla tela delle stradine di Ibla, lasciandomi circuire da miraggi fate morgane e fuochi fatui .Balbettai qualche parola, volevo spiegare che dovevo andare a lezione e che non riuscivo a raccapezzarmi su dove, e quando, fossi. La sua giaculatoria da rosario snocciolato non mi aiutava. Il micio pure era passato dalla sua parte.
A quel punto, potevo solo ricadere in tentazione: altri suoni, altri luccichii, altre penombre, altri anfratti mi avrebbero alla fine portato a destinazione.
« Pronto Peppe, sì, lo so, però purtroppo non posso venire perché ho avuto un problema con la macchina. A piedi? Fino a Ibla? Ma lo sai che detesto camminare! Ci vediamo domani ».

”Allora rientrai a casa e misi a scrivere: « E’ mezzanotte, la pioggia batte sui vetri ».
Non era mezzanotte. Non pioveva.”
Samuel Beckett.

Sergio Russo

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