Se non fossi stato lì, i sogni mancati dei bimbi di Gaza «Quel cemento non serviva a ricostruire nostre vite»

«Parlavano e parlavano, i media dicevano che avrebbero ricostruito Gaza, rimesso in piedi i suoi palazzi, spazzato via le sue macerie. Nessuno diceva di ricostruire anche le vite delle persone che con quei palazzi erano andate in frantumi». L’hanno chiamata operazione Margine protettivo, ma di protezione non s’è vista neppure l’ombra, in realtà. Perché 51 giorni di carneficina e bombe non sono un margine protettivo. Non lo sono neppure i 459 bambini rimasti uccisi. Ma è solo l’ultima in ordine di tempo, a precederla ci sono già state le operazioni militari Colonna di nuvole nel 2012 e Piombo fuso nel 2009. Nomi non proprio di buon auspicio. In poche settimane i morti arrivano a duemila. Siamo nel 2014 ed è luglio, nel resto del mondo la gente è alle prese con infradito, creme solari e ombrelloni. E quei morti sembrano solo lo strascico di una guerra che dura ormai da sessanta anni e alla quale il mondo si è forse abituato, una guerra a cui nessuno reagisce più. 

Di quei morti non resta niente, tranne qualche sterile cronaca giunta da troppo lontano. O forse no. Quando a morire sono anche i bambini, l’indifferenza non è mai totale. Qualcosa si muove, arriva fino a Palermo e parte proprio da Gaza. Arriva fino a noi in un luogo strappato alla mafia e dove oggi ha sede la Casa della Cooperazione. Arriva attraverso 400 disegni dal tratto incerto e dai colori vivaci. Sembrano disegni di bambini, invece a farli è stata la mano di Majdal Nateel, un’artista originaria di Ascalona (Israele) che vive e lavora a Gaza. La sua mostra If I wasn’t there, Se non fossi stato là, passa per l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e a maggio approda a Sant’Erasmo. Sono 400 quadratini autografi, ognuno rappresenta un bambino di Gaza che non c’è più, un bambino che in un posto diverso avrebbe avuto un’altra vita, un altro destino. Bambini insomma come tutti gli altri, con sogni normali e quotidianità fatte da giochi, non da bombe.

In un quadratino una bambina si asciuga i capelli, in un altro un bimbo corre a cavallo, mentre in quello accanto c’è una bimba che sogna di diventare principessa, leitmotiv delle infanzie di ogni latitudine e colore. Un altro disegno ritrae un piccolo che accarezza la pancia della madre incinta, mentre in un altro coltiva dei fiori. Cose normali che i 459 bimbi del luglio 2014 ormai non possono più fare, ma che ogni innocente di Gaza di certo vorrebbe. «Con questa raccolta ho provato a raccontare per immagini l’orrore di quell’estate, trasformandolo in un’esperienza nuova attraverso la quale fare arrivare la storia palestinese», dice a MeridioNews Majdal. «In questo momento sono a Gaza, spostarsi da qui e viaggiare non è impresa semplice – spiega – Infatti non sono mai venuta a Palermo, ma mi piacerebbe molto. Sapere che il mio lavoro è arrivato fino a voi e ha trovato consensi mi inorgoglisce».

«Sapere che il mio lavoro è apprezzato anche altrove è una cosa indescrivibile e che mi rende molto felice – continua – Soprattutto perché dietro la mostra If I wasn’t there c’è stato un duro lavoro. Da quelle bombe del 2014 si è parlato tanto di ricostruzione, ma valeva solo per i palazzi e gli edifici, non c’è stata nessuna ricostruzione umana». Non è un caso, infatti, che per realizzare i disegni Majdal abbia simbolicamente scelto un supporto particolare, diverso dalla carta standard o dalle tele solitamente impiegate in pittura: «Ho deciso di disegnare sul retro dei sacchi del cemento armato che sarebbe dovuto servire per ricostruire Gaza». Sono tutti immortalati lì, quei 400 sogni che non potranno esistere più. Mentre Gaza e i suoi abitanti restano ostaggio dei guerriglieri di Hamas e di un odio nato paradossalmente dalla volontà di sconfiggere l’antisemitismo, ma che di fatto ha solo generato una guerra senza fine.

Silvia Buffa

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