Scuole all’ ‘ammasso’: quale destino per il Liceo Classico?

APPELLO AL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE MARIA CHIARA CARROZZA PER SALVAGUARDARE I FUTURO DEL NOSTRO PAESE

da Luigi Capitano e Giorgio Israel
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il presente appello al ministro non è reso meno attuale dal decreto scuola, varato dal governo Letta il 9 settembre scorso. Si tratta, da parte del nuovo ministro Carrozza, di segnali positivi e incoraggianti. Il riconoscimento del diritto allo studio e gli altri interventi per alleggerire i costi dello studio alle famiglie, l’assunzione di nuovo personale, sembrano andare nella direzione giusta, anche se moltissimo resta ancora da fare! Per la prima volta dopo decenni di immobilismo o peggio di “distruzione pubblica”, sia apre finalmente un piccolo spiraglio di luce per la scuola, l’università e la ricerca.

Detto questo, mi pare che uno dei nodi più gravi e dolenti (quello del “dimensionamento della rete scolastica”), ossia delle scuole accorpate, fuse e portate ‘all’ammasso’, non sia stato ancora risolto, anzi che sia stato spostato in sede di intesa Stato-Regioni, cosa che francamente lascia perplessi su possibili rimpalli di responsabilità e balletti di competenze, visti i precedenti, e vista anche una sentenza della Consulta (n. 147 del 7 giugno 2012) che dichiara l’illegittimità costituzionale delle nuove norme sulla “razionalizzazione della spesa relativa all’organizzazione scolastica”. Riporto testualmente dal sito del MIUR, sul punto “Dimensionamento”: “A partire dall’anno scolastico in corso sarà un accordo in Conferenza Unificata, e non lo Stato, a definire i criteri e le modalità del dimensionamento scolastico”. Il ministero non dice e non chiarisce nient’altro, mi pare. Solo una frasetta alquanto vaga e oracolare che rimane tutta da interpretare, e che lascia un grossissimo punto interrogativo aperto sul futuro prossimo delle nostre scuole. La “relazione tecnica” all’art. 12 non aggiunge molto di più, affannandosi ad rassicurare che “la disposizione non comporta nuovi o maggiori oneri per le finanze pubbliche”. Voglio dirlo senza mezzi termini: non saranno certo i soliti ‘scaricabarile’, coperti dal nobile principio della sussidiarietà, a risolvere i gravi problemi della scuola italiana, già pesantemente colpita e affossata dai ministri di Berlusconi e a cui si offre oggi un contentino, insieme all’illusione di continuare a sopravvivere! “La scuola riparte”, è il nuovo slogan.

Venendo al caso Sicilia, non posso che rivolgermi direttamente al governatore Crocetta e all’assessore Nelli Scilabra, che conoscono bene la situazione dei numerosissimi istituti scolastici siciliani costretti, da quest’anno, a perdere la propria autonomia e fisionomia a causa dei “dimensionamenti” forzati. La domanda a loro rivolta è quindi dello stesso tenore: non si può proprio fare nulla per salvare i licei (con le leggi esistenti o meglio con nuove leggi ad hoc) dallo sfascio generale delle scuole? La questione è se può ancora essere riservato uno spazio e un ruolo alla scuola d’eccellenza (rappresentata tradizionalmente dai licei) o se quest’ultima deve essere soffocata dal livellamento al ribasso (come già notava qualche tempo fa il collega Alvaro Belardinelli), col risultato, indesiderato, di tagliare, per così dire, la testa ad un corpo che si è appena rimesso in piedi e in condizioni di tornare a camminare.

Le mie considerazioni pretendono di sollevare questioni di fondo e di un certo respiro. Dopo quasi vent’anni di insegnamento nei licei, devo confessare tutto il mio disagio nei confronti della scuola odierna. Se tale senso di smarrimento fosse solo mio, me lo terrei a malincuore, ma purtroppo penso di rappresentare un sentimento alquanto diffuso. Il mio ideale nostalgico mi riporta a quando il collegio dei docenti era ancora (di fatto, oltre che di diritto) un organo sovrano almeno nel campo della didattica; a quando il saper essere e il sapere critico, consapevole e responsabile contavano di più del saper fare per il saper fare (ossia per il funzionamento del sistema quale che fosse); a quando la scuola, anche attraverso i mondi di carta ti preparava alla vita e non semplicemente al mondo del mercato del lavoro (ammesso e non concesso che oggi riesca a fare almeno questo!). A quando non si temeva di far ripetere l’anno a uno studente proprio per aiutarlo a crescere e a compiere le scelte giuste, anziché “aiutarlo” a cavarsela con alibi insinceri, con evidenti risvolti antieducativi per i ragazzi. Quando le scuole godevano ancora di un certo giustificato prestigio nel paesaggio mentale di genitori e alunni. Quando non c’erano classi pollaio e collegi-greggi. Quando i licei erano licei e non erano costretti a fondere i loro orizzonti con quelli degli indirizzi di studio tecnici e professionali, come accade oggi per effetto dei disastrosi e ciechi tagli operati dal governo Berlusconi al tempo della Gelmini e di Tremonti e fatti passare – con quanta ipocrisia! – per una “riorganizzazione delle risorse umane nella scuola” (Dpr 81/2009). La ‘fusione fredda’ è stata inventata, si direbbe, dalla ex ministra specialista in neutrini e particelle nucleari, per fare sparire i licei! Chi ci porterà fuori dal – purtroppo non solo fantomatico – tunnel nel quale ci ha cacciato la berlusconiana Gelmini? Non mi si venga a dire che paradossalmente è meglio così, perché stritolando i licei a tutto vantaggio degli istituti tecnici e professionali la scuola d’élite, la scuola di classe, viene finalmente sepolta. È vero proprio il contrario: è la scuola tutta a rimanere sconfitta dalle avanzanti élites del mercato, a loro volta sopraffatte dalla crisi e dall’incapacità di declinare le esigenze dell’economia a quelle della società. Tutti possono vedere fino a quale punto il comparto-scuola pubblica si sia precarizzato: non vi sono dunque scuole pubbliche di serie A e di serie B.

Un pauroso quanto spesso inavvertito deficit democratico mina alla base la nostra scuola: la parte migliore della scuola italiana – il liceo – è praticamente messa all’angolo, alle corde. Il rischio è quello del rovesciamento di un precedente squilibrio che aveva aduggiato la scuola italiana in gran parte del nostro passato: la marginalizzazione degli insegnamenti e degli indirizzi di studio che trovavano uno sbocco nel lavoro di tipo manuale e professionale, rispetto a quella che allora appariva come la retorica umanistica. Una nuova dominante retorica antiumanistica minaccia oggi di sgretolare i fondamenti stessi della nostra civiltà, che riposano nell’epoca classica dei Greci. O abbiamo dimenticato perfino che la stessa parola “liceo” deriva dall’antica scuola del “maestro di color che sanno”? Cancellando la fisionomia e talora perfino il nome dei licei, per lasciare il passo ad altri indirizzi, non solo si cancella una tradizione gloriosa del nostro Paese, ma si taglia la testa al futuro dell’Italia. Analogamente, bistrattando o comunque non valorizzando la parte eccellente del corpo insegnante (che non è affatto necessariamente quella che fa la ressa per ricevere incarichi di collaborazione e per entrare nelle commissioni) la situazione non migliora. Spesso, infatti, i migliori docenti, quelli che non rinunciano a coltivare la ricerca (con pubblicazioni, partecipazione ai convegni, ecc.), in una scuola così ‘ammassata’ e spersonalizzante, rischiano di non valere più nulla! Nessuno, che io sappia, osa porre sul tappeto un simile problema “impertinente”.

Un solo esempio: in base alla normativa tuttora vigente, un insegnante che abbia per ‘sventura’ un dottorato da vantare – parlo per esperienza personale – si vede diminuire il punteggio nella graduatoria d’istituto solo perché ha svolto con profitto tre o quattro anni di ricerca, perdendo così il diritto alla continuità didattica. Non è un paradosso per tutte quelle politiche scolastiche che vanno sbandierando da tempo l’ideale della meritocrazia?

Tiriamo le fila: la scuola gettata ‘all’ammasso’ soffoca la democrazia, diventa inevitabilmente più burocratica, dirigistica e verticistica (si pensi al fatto che un unico commissario dovrà svolgere, in fase transitoria, la funzione degli ex consigli d’istituto delle scuole ‘ammassate’), impedendo in tal modo l’emergere del merito. Chiunque comprende che ci troviamo di fronte ad una scuola senza futuro, che toglie ogni prospettiva di crescita ai giovani e all’intero Paese. Quando poi si parla di orientamento, non dimentichiamo che il liceo classico rimane quello che almeno in teoria consente l’accesso a tutte le facoltà e non per caso, se apre la mente e insegna a ragionare…

Non ce ne sarebbe già abbastanza per recriminare? No: dobbiamo aggiungere dell’altro…

LA QUESTIONE TEORICO-PRATICA DELLE COMPETENZE E DELLE CAPACITÀ

Veniamo ora a questioni un po’ più teoriche, con inevitabili risvolti pratici e perfino esistenziali, come si vedrà. Perché la parola “competenza” comincia ad inflazionare e ad assillare il lessico pedagogico e scolastico? L’Europa si propone, all’alba del terzo millennio, di essere competitiva sulla base delle competenze ed ecco che con la “strategia di Lisbona” si intensifica il discorso sulle competenze nell’ambito dell’istruzione secondaria. Senza competenze, specie quelle tecno-scientifiche e linguistiche, non c’è alcuna possibilità di reggere la competizione globale. Sembrerebbe un’imposizione di ordine economico, piuttosto che di una strategia o di un’esigenza squisitamente didattica. Ma tant’è.

Il guaio, o l’equivoco, è che a questo punto (già a partire dalla riforma Berlinguer, stando a Lucio Russo) le competenze vengono intese come delle merci che possono essere acquistate e vendute nell’ottica del consumismo. L’insegnante non viene realmente trattato come un valore in sé, come una figura che incarna lo spirito del sapere: è uno strumento, una funzione, un povero Cristo che può essere sballottato come un commesso viaggiatore o come una merce-lavoro da postare da una sede ad un’altra purché appunto venga ‘utilizzato’ – espressione di pessimo gusto entrata perfino nel gergo giuridico! – da qualche parte all’unico scopo di far funzionare il sistema. Siamo dunque semplici strumenti – come dimostrano anche sul piano linguistico le cosiddette “funzioni strumentali” – non già dei modelli, delle guide, dei validi referenti da tutelare in quanto tali. E certo sarebbe una bella quanto inverosimile rivoluzione se ciò avvenisse; una rivoluzione conosciuta in passato, grazie ai grandi maestri dell’umanitàdi. Un rivolgimento come quello dell“epoca assiale”, oggi, mi rendo conto, sarebbe un’utopia simile a quella coltivata nel Gioco delle perle di Vetro da Hermann Hesse, di cui ci piace ricordare il seguente aforisma: “l’insegnante non deve servire l’alunno, ma entrambi devono servire lo spirito”. Questa frase consente di illuminare un non meno folgorante detto buddista: “il maestro arriva quando l’allievo è pronto”.

Nelle nostre brave programmazioni si parla tutt’al più di “obiettivi”, e di “strumenti”, da cui traspare ancora una volta quella logica funzionalistica di cui sopra, come se nessuna riflessione critica fosse mai stata svolta sull’agire strumentale, sulla filosofia della tecnica da Max Weber ad Hans Jonas, da Günter Anders a Zygmunt Bauman, a Umberto Galimberti. Tutti questi autori che ammoniscono l’umanità a rispettare un’etica della responsabilità e della lungimiranza non sono ancora stati sufficientemente recepiti e assorbiti a livello di discorso pedagogico-didattico, purtroppo.

Con un insensato stravolgimento prospettico, il discorso sulle competenze viene oggi invocato a favore della competizione economica e non si pensa invece alla competizione intellettuale come mezzo per conquistare sempre nuove aree di conoscenza e di competenza (peraltro con inevitabili contraccolpi positivi sull’economia e quindi sulla società). Non vi è un forse un vizio di fondo in tutto questo ‘ragionamento’? Ricordate poi le famose tre “i” sbandierate dalla riforma Moratti come panacea universale (“informatica, inglese, impresa”)? Questi tre strumenti, erano stati presentati, con la solita confusione di prospettiva, come i nuovi obiettivi da raggiungere. Ma ecco che anche queste tre “i” sono state ben presto rimpiazzate da un’ulteriore riforma nominalistica e alfabetica dalle tre “c”: “competenza, conoscenza, capacità” (che il ‘buon’ docente, abituato a cambiare nomi, perché tutto alla fine rimanga più o meno come prima, ha già imparato a rinominare con il termine più tecnico di “abilità”).

Passiamo quindi a trattare di capacità: perché rimuovere un termine così pregnante, quando tale concetto ha potuto essere nobilitato, a buon diritto, da una filosofa come Martha Nussbaum? Si tratta del riconoscimento di nuovi diritti: per la “ricchezza delle nazioni” con conta più soltanto il PIL, quanto la ‘metacapacità’ – al secondo grado – di creare e sviluppare capacità umane, prima fra tutte il diritto all’espressione del pensiero e dell’immaginazione. Tali capacità sono – si badi bene – diritti di nuova generazione, “beni comuni”. Non si tratta dunque soltanto di “imparare ad imparare” (sarebbe già un ottimo metodo nell’ottica di un’educazione permanente), ma di essere capaci di sviluppare le proprie capacità (intellettuali e non) in ogni direzione, secondo quella concezione allargata di intelligenza che viene illustrata magistralmente in Formae Mentis da Howard Gardner, pietra miliare negli studi sull’apprendimento. La scuola non potrà mai orientare ad un bel niente se non sarà messa nelle condizioni di poter sperimentare opzioni e stimoli diversi, se non invita ogni singolo studente, anche fuori dall’aula, ad ascoltare il proprio demone e a seguire la propria stella! Senza dimenticare che le capacità cui alludiamo discendono tutte da quel diritto umano ‘capace’ a sua volta di fondare ogni altro: alludo al diritto alla libertà (nel senso di Jeanne Hersch). A suo modo, il diritto a sviluppare liberamente la propria personalità lo riconosceva, insieme ai maggiori pedagogisti di ogni tempo, anche il rapporto UNESCO 1995, con l’affascinante formula: “sapere, saper fare, saper essere”. Che il sapere in senso puramente cognitivo non sia un valore in sé è del resto cosa assodata e ben nota a chiunque abbia anche soltanto una minima familiarità con la mentalità filosofica: “la ‘multiscienza’ non insegna l’intelligenza” (Eraclito); “una testa ben fatta è meglio di una testa ben piena” (Montaigne); “l’insegnamento umanistico deve essere non sacrificato, ma magnificato” (Edgar Morin), e via di questo passo. La capacità di pensare conta più di ogni conoscenza, competenza o abilità, perché tutte le governa e le fonda. Questa capacità di ragionare e di immaginare è in ogni uomo (come ricordano i più grandi filosofi), ma dev’essere adeguatamente educata e sviluppata. Di qui l’eccellenza della filosofia, unica scienza libera, che guarda caso si insegna solo nei licei e in qualche esclusiva facoltà!

Da parte mia non nego affatto l’importanza di tutte quelle competenze che possono derivare da un fecondo distillato di conoscenze e capacità. Ma non è questo il luogo per discettare di questo. Basti qui osservare che per definire le competenze abbiamo sempre bisogno dei concetti di capacità e di conoscenza. Peccato che la retorica della competenza abbia finito col soffocare la vera pratica della stessa competenza, che è fatta di capacità critica, di autoregolazione responsabile, di ricerca e di creatività, non certo di cliché tecnicamente riproducibili e certificabili in modo alquanto problematico. Le competenze vengono ormai certificate anche da noi in Italia su discutibili “assi” per porsi alla pari con l’Europa. Che fine farà il nostro precipuo sistema di formazione, che contemplava un corso di ben cinque anni contro il doppio biennio al quale dovremmo adeguarci da ‘buoni’ europei? Allora, perché non chiediamo noi all’Europa di rivedere i suoi standard, senza avere il timore di misurarci, al tempo stesso, con i migliori modelli offerti della scuola nordeuropea?

Chi scrive, insegna da tredici anni in un ex liceo classico che vanta ben centocinquant’anni di storia e che l’anno scorso, ad appena due mesi dalla commemorazione del centocinquantenario, veniva “fuso”, in forza del decreto assessoriale della Regione Sicilia (“GURS”, 5 aprile 2012), con tutte gli istituti superiori ad indirizzo tecnico-professionale del circondario afferenti a Bivona, nell’agrigentino. Mi si perdoni la domanda: che cosa ha da spartire un liceo classico dalla tradizione plurisecolare con un neonato istituto alberghiero (con tutto il rispetto per gli istituti professionali e simili)? Sta di fatto che i licei di tutt’Italia si avviano su un malinconico viale del tramonto; anche i migliori, assorbiti come sono da altri istituti e da una crisi di idee – prima ancora che economica – che, come il Minotauro, reclama le sue vittime sacrificali. Mentre da un lato si parlava con disinvolta spregiudicatezza di “autonomia” (addirittura statutaria e finanziaria: o abbiamo già dimenticato l’abominevole Aprea?), dall’altro ora si toglie paradossalmente ogni residua autonomia e ogni peculiare fisionomia ai licei, assorbendoli negli istituti di tutt’altra ispirazione e vocazione, e votandoli in tal modo alla sparizione. A scanso d’equivoci, non si tratta di una difesa di tipo classista o elitista tutt’altro: tutte le scuole pubbliche, di qualunque indirizzo, hanno ai nostri occhi pari dignità. Al contrario, rimane da chiedersi: cosa c’è di più classista delle nuove élites del mercato, che fra l’altro stentano a riprendere quota proprio perché il settore istruzione in Italia ha rinunciato alla ricerca, all’innovazione tecnoscientifica, ad un aggiornamento massivo degli insegnanti e soprattutto alla formazione liceale, indispensabile per una “società della conoscenza”? Sia ben chiaro: nessun rumore di fondo dell’informazione (come dire: nessuna tecnica lasciata funzionare in modo automatico) può essere dissipato se non dall’autentica formazione e trasformazione profonda dei saperi, come dire da forme di competenza veramente metabolizzate e interiorizzate. Come l’informazione non è capace di formare, così la formazione non è, da sola, in grado di trasformare il paesaggio dei saperi. Vado ripetendo dai tempi della protesta universitaria contro la riforma Ruberti nel 1989 (con la quale si aprivano le porte dei privati negli atenei, come fino a ieri l’Aprea tentava di fare nelle scuole pubbliche) che solo il sapere di tipo umanistico (e in modo eminente la filosofia), vocazionalmente estraneo alla logica di mercato, riesce a penetrare criticamente nel codice e nella grammatica viva della creatività, ponendo così le condizioni per una trasformazione e un avanzamento dei saperi, dei valori e dei diritti dell’umanità. Beninteso, il mio discorso non vuole marcare la differenza fra le presunte “due culture”: l’umanistica e la scientifica, o peggio discriminare la formazione tecnica e professionale da quella di tipo liceale.

Una nuova alleanza fra le “due culture” è stata da tempo predicata, seppure con ottiche assai diverse fra loro, dai vari Ilya Prigogine, Fritjof Capra, Vandana Shiva, ecc. Qui il punto è un altro: proprio i licei rimangono, per fortuna, gli ultimi custodi di tale “nuova alleanza”, che oggi si vorrebbe infrangere a vantaggio della logica dei tagli e dell’impresa, a favore di scuole prone alle leggi del mercato, e quindi costituzionalmente incapaci di creare contraddizioni feconde per la società. Ricordo spesso ai miei studenti l’importanza – quasi rivoluzionaria – dell’articolo quattro della nostra Costituzione che, non solo rivendica il diritto al lavoro, ma alle “scelte” capaci di concorrere al “progresso materiale e spirituale della società” (una formula, quest’ultima, mutuata – quanti lo sanno? – da Giuseppe Mazzini!).

INUTILITÀ DELLA TEORIA O INDISPENSABILITÀ DELL’‘INUTILE’?

Per dimostrare l’inutilità della teoria (e quindi della forma mentis umanistica), si cita spesso una frase di Einstein (senza peraltro assumerla in tutta la sua profondità): “La teoria è quando si sa tutto e niente funziona. La pratica, quando tutto funziona, ma nessuno sa perché”. Oltre ad offuscare il vero senso di questo paradosso, si dimentica il fatto che Einstein ha anche detto che “nulla è più pratico di una buona teoria”. Il senso autentico dell’aforisma potrebbe essere illustrato parafrasando Kant: la teoria senza pratica è vuota, ma la pratica senza teoria è cieca. Una civiltà plurimillenaria che decida di rinunciare all’educazione a qualunque forma di idealità non va forse verso un’estinzione assicurata?

La storia della filosofia insegna che le matrici disciplinari discendono spesso dalla teoria, dalle “metafisiche influenti”, e che la prassi più alta per ogni collettività umana rimane quella etico-politica. Per fare un esempio, lo scienziato atomico, ad un certo punto (dopo Hiroshima e Nagasaki), è stato costretto a riflettere non solo su come costruire la bomba, ma soprattutto sul perché. Certo, anche il sistema tecnico-scientifico e quello economico devono funzionare ed essere nelle condizioni di competere a livello globale. Ma la tanto invocata crescita, dopo l’austerità imposta dai “poteri forti” dominanti in Europa, da noi tarda a venire proprio perché la nostra classe politica non ha avuto la lungimiranza di investire sul futuro, sul settore istruzione, università e ricerca e sulle scuole d’eccellenza quali sono e rimangono – chissà per quanto tempo ancora – i licei, e in particolare i licei classici.

“PERCHÉ SE MUORE IL LICEO CLASSICO MUORE IL PAESE”

Sulla stessa linea d’onda delle mie considerazioni, un grosso intellettuale come Giorgio Israel, ha recentemente scritto un articolo che sottoscrivo dalla prima all’ultima riga e che mi permetto di riportare qui per intero, augurandomi così di farlo entrare nel dibattito:

“Da un lato un boom di iscritti ai test d’ingresso al Politecnico di Milano e una propensione per le lauree di ingegneria o direttamente correlate a una professione definita; dall’altro, un declino delle iscrizioni ai licei, in particolar modo al liceo classico. Alcuni commenti salutano questi dati come espressione di una tendenza positiva verso la “laurea utile”, verso l’abbandono delle propensioni “generaliste”, verso una preparazione corrispondente alle figure richieste dalle aziende. A noi sembra invece che la valutazione vada divisa: ottima è la prima tendenza, perché la rivalutazione delle professioni ingegneristiche e tecnologiche anche a livello della formazione professionale, è essenziale per un paese in via di declino industriale; pessima è la seconda tendenza per motivi che dovrebbe essere superfluo dire. Come può un paese che possiede più della metà dei beni culturali, artistici, architettonici del mondo non preoccuparsi di coltivare un ceto di persone di altissima competenza capace di valorizzare quel patrimonio che, se non altro, ha un enorme potenziale economico? Si badi bene: non si tratta solo della necessità di formare un esercito di archeologi, di restauratori, di persone all’altezza di gestire musei e l’immenso, quando degradato e depredato, patrimonio librario del paese. Si tratta di non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana. Come è possibile pensare che il patrimonio culturale del paese possa essere preservato se quasi nessuno conosce più neanche i nomi degli architetti, dei pittori, dei letterati, degli scienziati che l’hanno costruito e finisce col considerarlo un irriconoscibile ciarpame? Il disprezzo dell’umanesimo (anche sul fronte della cultura scientifica!) è la via per il sicuro declino.

Ci potremmo fermare qui, ma c’è di peggio. A chi ha sempre difeso le assurde accuse di stampo idealistico alle scienze esatte non può piacere il disprezzo simmetrico per l’“altra cultura” tacciata di non fornire né conoscenze né saperi pratici, insomma di essere un cumulo di prodotti inutili e di chiacchiere di dubbio valore. La sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa. Non a caso stiamo perdendo il senso della parola “ricerca”, ormai sinonimo di “innovazione tecnologica”.

Invece, lo straordinario successo della scienza occidentale è stato fondare la tecnica sulla scienza, creando la “tecnologia”. Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ’l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». Oggi questo è più vero di ieri. Giorni fa un illustre ingegnere osservava che nel contesto odierno, sempre più complesso e ricco di interrelazioni, servono persone di formazione vasta e aperta, in breve di formazione umanistica, che spesso solo il liceo classico può dare. L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del senso del “trasporto” nella realtà economico-sociale di oggi. Come può farlo questo chi non sappia di economia, di sociologia, di storia? In un’università tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?».

È comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al disastro. Nè vale produrre l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario, visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia. Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di credere che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni.

Abbiamo bisogno di persone di ampia formazione e capaci di scelte autonome, e non di polli di batteria formati per una sola funzione che, col procedere tumultuoso della tecnologia, potrebbe diventare obsoleta nel giro di poco tempo. Per formare persone del genere serve anche il liceo classico. Chi gioisce per il suo declino ride mentre è segato il ramo su cui sta seduto”.

(“Il Mattino” e “Il Messaggero”, 25 agosto 2013)

Bravo Israel! Quanto la capisco! Ma dove sono finiti gli altri intellettuali? E gli insegnanti “eccellenti”? Tutti integrati? Tutti distratti? E che ne pensa il nuovo ministro Maria Chiara Carrozza, così animata di buoni propositi, che fatica a far comprendere allo strano governo di cui è membro come perdere il treno della ricerca e dell’innovazione significherebbe perdere il treno stesso della crescita? Non posso credere che fatichi – ella stessa – a comprendere che i licei rimangono da tutelare a dispetto del calo demografico, della crisi economica e di qualunque altra considerazione! Se un liceo di provincia tagliato fuori dal mondo e ‘alla periferia dell’impero’ (come il mio), al pari del liceo di una grossa metropoli, dovesse raggiungere l’inverosimile popolazione di novecento-mille alunni o essere votata altrimenti all’estinzione, che speranza rimarrebbe per la scuola italiana? Fa sorridere al riguardo la proposta di 850 alunni iscritti come tetto per l’autonomia avanzata dalla FGC-CGL. Non saranno certo cinquanta alunni in più o in meno a fare la differenza, quando il problema è così macroscopico, per non parlare delle esigenze territoriali, che non sono affatto omogenee in ogni parte dello stivale (un ex liceo arroccato nel cuore dei Monti Sicani, come il mio, tanto per fare un esempio, non può godere per pochi metri dello status di “zona montana”, quando il suo bacino d’utenza raccoglie molti centri montani mal collegati e con strade da terzo mondo!). E allora!

Non si vuol capire che la cultura esige che si investa in modo incisivo e decisivo su di essa se si vuol uscire dalla crisi economica e di civiltà che attanaglia ormai il nostro Paese. Si parva licet…, quattrocento milioni per la scuola di oggi e di domani non sono certo paragonabili al famigerato taglio di otto miliardi e passa operato dal governo Berlusconi (cui si aggiungono le vertiginose riduzioni di spesa programmate dal Documento di Economia e Finanza del 2011, sempre con Tremonti ministro), fino ad arrivare alla spending rewiew del salasso-Monti, accompagnato dalla proposta indecente di far salvare una scuola ormai allo sfascio dai privati (il famigerato ddl Aprea-Ghizzoni). Tutto questo sullo sfondo del cosiddetto “ventennio berlusconiano”, caratterizzato da una spregiudicata ideologia “del fare”, che riduceva la scuola e l’Italia al pari di un’azienda, con tutto il suo strascico di beceri e insulsi luoghi comuni sulla cultura che “non si mangia”, “non è produttiva”, “è uno spreco”, “un privilegio per fannulloni”, ecc. “Razionalizzazione del comparto scuola”, “razionale ed efficace utilizzo delle risorse”: sono gli eufemismi linguistici e i rituali giuridici che hanno nascosto la ‘macelleria’ sociale operata sul corpo vivo della scuola italiana ai tempi della berlusconiana Gelmini. In questa cornice, rientra pure il discorso dei “dimensionamenti” per la “riorganizzazione della rete scolastica”. Ma si può vincolare la politica dell’istruzione all’incapacità delle istituzioni di essere lungimiranti? È possibile che proprio la scuola debba pagare i costi della crisi, quando invece rappresenta l’unica leva per ogni possibile ripresa?

È LECITO CONCEDERSI IL LUSSO DI CHIEDERSI DOVE STIAMO ANDANDO?

Pare che la scuola di oggi, assillata com’è da mille nuove incombenze e da tagli irresponsabili che la costringono all’ammasso e quindi al caos, non possa concedersi il lusso di fermarsi nemmeno un attimo per riflettere: rischierebbe di innescare un infinito dibattito su dove si sia andata a cacciare, per esempio con i nuovi dimensionamenti che gettano nello scompiglio destini personali insieme ad intere popolazioni scolastiche. L’importante è che la scuola si organizzi, che funzioni secondo le nuove direttive. Questo è tutto. Si adatti chi deve, e si salvi chi può. Ma la domanda sul perché, continua a sfuggire ai più…

Mi auguro che questo mio intervento (che si associa alla voce autorevole di Giorgio Israel) possa almeno contribuire ad agitare un po’ le acque e a scuotere un po’ dal loro torpore le menti che, a vari livelli, lavorano per la scuola italiana. Altrimenti? Altrimenti, temo che anche i nostri cervelli, nonché quelli dei nostri alunni, rischieranno di venire portati all’ammasso, insieme alle nostre scuole. Allora: vogliono le reti di resistenza e le scuole della Costituzione provare a dire la loro sui temi e i problemi qui sollevati? Vogliono farsi sentire le sigle sindacali, anziché fare atto di presenza sì e no una volta l’anno nelle scuole (finora, che io sappia, solo l’Anief ha levato una voce di seria protesta)? Intende cortesemente il ministro Carrozza provare a rispondere alle questioni – non certo oziose – che si agitano in queste righe come nel profondo di quella che rimane l’eccezione eccellente del nostro Paese: il liceo classico, il liceo kat’exochèn? luigi.capitano@gmail.com

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Redazione

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