Scuola italiana più inclusiva in Ue? Non a Catania Presidi e docenti: «Pericolo ghetti e zero risorse»

«La scuola italiana è la più inclusiva d’Europa: riduce il gap tra i ricchi e i poveri». È la notizia che, alcune settimane fa, rimbalzava sulle principali testate nazionali partendo da un focus pubblicato dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Per farla breve: su una ventina di Paesi analizzati, l’Italia è risultato essere quello in cui le distanze tra ceti sociali vengono annullate più facilmente. In altri termini, i ragazzi che vengono da famiglie economicamente e culturalmente difficili ottengono gli stessi risultati dei coetanei che, invece, possono contare su un contesto e una situazione economica più semplici. «A livello normativo non c’è paragone tra le tutele e le possibilità che la scuola pubblica italiana dà a chi vive in condizioni di disagio. Ma la teoria è diversa dalla pratica: e a Catania, senza gli strumenti adeguati, diventa difficile parlare di inclusività reale». A parlare è Adriana Battaglia, docente catanese e, dal 2007 fino al 2016, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Caronda di via Acquicella, a pochi passi dal Fortino.

Il report dell’Ocse parla, in realtà, di giovani che frequentano le scuole superiori. Ma, secondo gli addetti ai lavori etnei, all’ombra dell’Etna bisognerebbe prima «superare le medie». «Nel resto d’Europa non ci sono meccanismi che permettano, come qui, di integrare perfettamente gli studenti meno abbienti», continua Battaglia. «L’Italia ha integrato l’insegnante di sostegno nel 1977, siamo stati i primi a certificare le dislessie, siamo sempre molto avanti sul sistema scolastico», conferma Tarcisio Maugeri, dirigente del Livio Tempesta di via Gramignani, una porzione di San Cristoforo ancora più complessa. È lui che alla fine dello scorso anno era stato aggredito da una mamma che non voleva accettare il diniego di lasciare che il bimbo minorenne tornasse a casa con un’altra sorella, minore anche lei. «Al momento in tutte le classi ho circa 650 studenti. Ho fatto di recente un sondaggio e ne ho 15 che, a 15 anni, sono ancora in seconda media e finiranno l’obbligo scolastico l’anno prossimo. E su 60 che finiscono la terza media almeno la metà sceglie di intraprendere un percorso di formazione professionale».

Numeri e storie ben lontani da quella presunta capacità tutta nostrana di azzerare le distanze. «Nei fatti – spiega Adriana Battaglia – organico e risorse vengono continuamente tagliati. Ed è su quelli che si gioca la partita. Non c’è modo per fare una didattica differenziata, le compresenze in classe sono state eliminate, per nominare supplenti ci sono limiti troppo stringenti e i docenti che dovrebbero servire per fare potenziamento, in realtà, vengono usati per coprire quelle che diventano emergenze e che sono, però, quotidianità». Tutte ristrettezze con le quali nelle scuole è difficile fare i conti. Ancora di più nelle realtà di frontiera, in cui da insegnare c’è tanto altro oltre alle materie. «Le carenze stanno tutte là: sostegno, attività extracurriculari, capacità di offrire strumenti tecnologicamente adeguati. Noi ci concentriamo solo su chi ha più difficoltà – sostiene Maugeri – ma ci dimentichiamo, alle volte, che ci sono tanti tipi di allievi a cui impediamo di costruire un futuro: ci sono ragazzi intelligentissimi che in classe si annoiano perché la didattica non riesce a rispondere ai bisogni di tutti. Non meritano anche i migliori di essere inclusi?».

«Noi proviamo a mettere delle pezze con gruppi classe e lezioni aperte – aggiunge la preside – Alla Caronda il tasso di dispersione scolastica non era altissimo. Ci siamo inventati tante iniziative con niente, e a abbiamo lottato tanto per fare diventare queste scuole istituti comprensivi». In modo da ridurre, almeno, il numero dei giovanissimi che smettevano di andare a scuola nel passaggio dalle elementari alle medie. «Qua le cose funzionano se ci si prende sulle spalle la croce», commenta il collega della Tempesta. E a confermare le parole dei dirigenti c’è anche chi coi ragazzi ci lavora tutti i giorni. P. ha cominciato a insegnare da due anni e, dopo un periodo in una scuola bene, è stato mandato in un istituto comprensivo di un’altra zona non semplice. «Non sarebbe esagerato dire che la maggior parte dei miei studenti viene da situazioni svantaggiate – racconta – Quello che traspare in loro è che non vedono la scuola come mezzo per migliorare, molti non hanno voglia di imparare. E, per quanto sia brutto dirlo, alcuni è difficile pensare che si possano recuperare perché già alle medie sono particolarmente cresciuti». 

In base alla sua esperienza, molte ore di lezione «si perdono a tentare di attirare l’attenzione di tutti, senza contare che in scuole come la mia ci sono una buona porzione di studenti problematici e un’altra percentuale consistente di minori stranieri, da poco arrivati qui, che non parlano una parola di italiano. Un mix che rende una condizione necessaria avere in aula più di un insegnante, peccato che non si possa fare». Per colmare le carenze di organico non basterebbero provvedimenti tampone, «servirebbe riorganizzare completamente le lezioni, aumentare in modo corposo le risorse umane per assecondare la necessità di lezioni sempre più personalizzate, fornire più strumenti: nella mia scuola il cortile è inagibile e non si può fare educazione fisica». Certo, ci sono le lavagne interattive e la connessione a internet, «ma organizzare attività coinvolgenti per gli alunni non può dipendere solo dallo spirito di chi, meritando grande ammirazione, vive il mestiere come una missione».

Anche la missione, peraltro, per forza di cose si interrompe col passaggio alle scuole superiori. Che aprono un altro lungo elenco di problemi. «Devono spostarsi dai loro quartieri e, quando lo fanno, alle volte vengono stroncati sul nascere», ammette Adriana Battaglia. Secondo lei, i pregiudizi sui quartieri non sono facili da superare: «Lo vedo sulla mia pelle – dice – Io ho deciso di vivere e comprare casa nel quartiere di Librino. I nasi che si storcono sono tanti». Lì, però, le superiori ci sono arrivate. «Si risolve il problema degli spostamenti, magari è più facile che non disertino le lezioni – dichiara lei – Ma poi il messaggio che passa, sto esagerando volutamente, è che nasci a Librino e muori a Librino. Non è ghettizzazione?». E il suo omologo è d’accordo: «Credo che mischiarsi sia sempre un’opportunità. Se un ragazzino di San Cristoforo finisce alle superiori a Ognina, non è occasione di crescita sia per il figlio del notaio sia per quello dell’operaio?». Prima, però, a quello bisogna arrivarci. «Per non perderli mi affido al volontariato. Non ho allievi che siano andati al liceo – conclude Tarcisio Maugeri – Ma mi va bene comunque che abbiano un percorso regolare».

Luisa Santangelo

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