Da studente universitario, fresco di diploma, credi che il principio di eguaglianza mai sarà rispettato quanto in questo periodo della tua vita. Che non è così ci metti un lampo a capirlo. Che a prendere il posto di un’eguaglianza formale di diritti ci sia solo un’eguaglianza sostanziale di doveri, se sei sveglio te ne accorgi appena mezz’ora dopo essere entrato per la prima volta in un plesso universitario catanese a caso. Qui siamo a Scienze politiche. E’ sempre la stessa storia: le lamentele stridule dei ragazzi di secondo e terzo anno (o più) lasciano spazio alle voci, ancora un po’ acerbe, delle matricole, in un turnover che cambia spesso di location, ma che non muta di richiesta, negli anni e nei decenni: «Vogliamo le aule più grandi con più posti a sedere e libero il passaggio per l’uscita, perché se succede qualcosa facciamo la fine dei topi». Si ha il dovere di pagare le tasse e di studiare ma non il diritto di sedersi e prendere appunti come esseri civili. Intanto c’è chi si attrezza come meglio può per sopportare il pavimento gelido e scomodo.
Il principio di fratellanza, almeno quello, viene preso in considerazione. Infatti il primo giorno di università, se quando arrivi alle 7:55, per una lezione che inizia alle 8, non trovi più posto (perché nell’aula ce n’è ottanta di sedie ma di studenti centocinquanta), ti arrabbi più con te stesso che con altri e pensi solo «domani arriverò prima». L’indomani, quando arrivi alle 7:30 e noti che trenta persone (che hanno già costituito delle piccole élite in appena un giorno di lezioni) di posti ne hanno occupati ottanta, e tu finisci comunque a terra, ti arrabbi con tutti e pensi «voglio spaccare il mondo». Dopo sei ore del giorno prima e sei di quello dopo per non parlare del mal di schiena che ti ritrovi, non vedi l’ora di tornartene a casa a scaricare le frustrazioni su fratelli, genitori e amici. Così si conclude il tuo secondo giorno di lezioni. Nella terza giornata costituisci l’Associazione-dei-Senza-Posto-a-Sedere che, con a capo qualche leader più grande, cerca di fare breccia sul cuore del preside, coinvolgendo anche i professori, ma che poi si risolve in un nulla-di-fatto.
La questione riguarda soprattutto il nuovissimo plesso di via Gravina, dove «ci si trova a fare lezione in aule piccole, poco luminose e senza microfoni. Era meglio l’anno scorso nella sede centrale di via Vittorio Emanuele», ammette con un filo di voce la professoressa Fisichella, in aula 1. Unica eccezione, la sala conferenze (detta aula grande) che contiene duecentocinquanta posti a sedere e impianto sonorizzato (la cui acustica comunque pare non renda il massimo).
Stiamo parlando di una delle sedi del progetto “PoliMed”, la cui finalità sarebbe quella di attrarre cervelli, per master e dottorati di ricerca, dai paesi del bacino euro-mediterraneo; ma che all’occorrenza serve come polo didattico per gli studenti dei corsi di laurea triennale di Scienze politiche. Fermato al volo, il prof. Gianni Piazza ci dice che «Questo plesso nato per ovviare alle carenze di spazio della sede centrale di via Vittorio Emanuele, in realtà è frutto di un errore di valutazione nel prevedere i flussi di studenti. Fare le turnazioni per avere a disposizione l’unica aula grande non rappresenta una soluzione, ma una soluzione tampone». Insomma ancora una volta i soldi sono stati spesi male? «Evidentemente la struttura non è stata progettata e pensata in maniera funzionale ed efficace, il punto è: era possibile prevedere questi flussi considerando i numeri del passato? Io credo di sì».
Tornando ai principi. Uno studente non può dimenticarsi della libertà di andare in bagno, soprattutto quando ti viene negata implicitamente. Se solo un bagno su quattro funziona, e gli altri sono chiusi per straripamento delle acque, alla fine te la tieni per due motivi: o perché c’è una fila chilometrica e già è finita la tua “pausa-lezione” o perché c’è “lo schifo”. E ne vogliamo parlare della libertà di prendere un po’ d’aria chiacchierando durante le pause? Infatti all’interno del plesso c’è una sorta di piccola area-relax (un cortiletto), circondata da vetrate, ma che col sole funge da serra e con la pioggia ti fa scappare dentro per non bagnarti (non c’è il tetto). Così ci si affolla nei corridoi interni, disturbando i colleghi che dalle aule sono obbligati a dover sentire il brusìo di fuori, che, senza microfoni, copre la voce del professore che sarebbe lì per insegnare qualcosa.
Insomma dopo una settimana di lezioni hai sempre più l’impressione che i vari diritti personali siano stati un po’ boicottati. Un/a siciliano/a nella media – 1.60 di altezza – sbatte le ginocchia su una specie di “reggi-libri” a quadretti attaccato al banco davanti, i cui posti, tra l’altro, sono tutti rigorosamente legati, tanto da farti sentire il collega quattro posti più in là se accavalla le gambe, o se le distende, o se ha il tic nevrotico del piede vibrante sul pavimento (ammesso che li riesca a disincastrare dal reggi-libri!). Poi devi per forza sconfinare nello spazio vitale del vicino, gli fai inevitabilmente piedino e stai tutto storto per cercare di scrivere dritto. Insomma tantissime le posizione viziate per riuscire a sopportare sei ore di lezioni. Se poi volessi alzarti per andare all’improvviso in bagno meglio che te la tieni perché faresti alzare una parte della fila… In compenso il principio dello “Stato assistenziale” è stato preso in considerazione da chi ha ristrutturato l’edificio. Infatti se vuoi aprire o chiudere la finestra (esterna) di tua volontà, ma non sei alto almeno 1.70 devi desistere o chiedere aiuto. Se accanto becchi il “vatusso/a-matricola” un po’ timido/a che ti dice: «No, non mi alzo, la prof. mi nota!», puoi anche morire congelato o asfissiato.
La domanda sorge spontanea: ma chi progetta queste strutture è mai stato giovane? E’ mai andato all’Università? E ancora, non sarebbe stato meglio adibire questo plesso per laboratori e conferenze saltuari? Gli studenti che abbiamo interpellato si lamentano: dicono di sentirsi soffocare seduti tra i banchi e accusano mal di schiena. Insomma, iniziamo bene…
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