Santapaola, fatto grave e senza precedenti

La questione della lettera di Vincenzo Santapaola, figlio del più celebre boss Nitto, pubblicata dal quotidiano “La Sicilia” lo scorso 9 ottobre, è anche – si è detto – una questione di deontologia. Non solo perché l’autore della missiva è un detenuto al 41 bis – che in teoria dovrebbe avere ridotte possibilità di comunicazione con l’esterno – ma per la scelta del quotidiano di non affiancare al testo della lettera né una breve biografia dell’autore – che potesse aiutare il lettore meno preparato a contestualizzarla – né qualsiasi altra nota di commento. Ne abbiamo parlato con Franco Abruzzo, ex presidente dell’Ordine regionale della Lombardia (lo è stato per 18 anni) e docente di Diritto dell’Informazione all’Università Iulm e all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Sul suo “Codice dell’Informazione e della Comunicazione” hanno studiato per sostenere l’esame da giornalista migliaia di professionisti in Italia. E sulla deontologia Abruzzo non transige: è una delle sue battaglie personali.

Professore, il quotidiano catanese “La Sicilia” ha recentemente pubblicato il testo integrale di una lettera di un detenuto al 41bis, di cognome Santapaola, nuda e cruda. Non sarebbe stata necessaria qualche riga di commento? Un tentativo di contestualizzazione?
Nelle nostre scuole di giornalismo, mi capita spesso di rispondere alla domanda: “Che si intende per giornalismo?”. La risposta è “informazione critica legata all’attualità”. Se l’articolo 2 della legge 69/1963 sancisce il “diritto insopprimibile dei giornalisti alla libertà di informazione e di critica”, nondimeno esistono dei doveri che bisogna assolvere. L’obiettività non significa neutralità: il giornalista è un mediatore intellettuale tra i fatti e la pubblica opinione. Pertanto è tenuto a offrire una ricostruzione dei fatti e a inquadrare i protagonisti dei fatti.

Nel caso specifico, quindi, era preciso dovere del quotidiano precisare chi fosse il mittente della missiva?
Non si poteva non riflettere su questa circostanza: Vincenzo Santapaola nella lettera non nomina mai il padre, tace sulla tragedia dell’assassinio della propria madre e implora di essere considerato come una “persona normale”, un “uomo qualunque”. Troppo. Impossibile. Non si discute il diritto e il potere del direttore de “La Sicilia” di pubblicare la lettera di Vincenzo Santapaola. Il problema è un altro: i lettori del quotidiano avevano e hanno il diritto di conoscere la biografia dell’estensore della lettera.

Non si tratta di un mittente insignificante della storia siciliana e italiana se ci si basa sul presupposto che la mafia sia ancora oggi, e drammaticamente, un problema irrisolto della nazione. I giornali sono e dovrebbero essere la coscienza vigile della comunità nella quale vivono e incidono. Quel quotidiano il 9 ottobre è venuto meno ai suoi doveri di informare in maniera rigorosa, completa, e documentata la pubblica opinione, salvaguardando anche il diritto alla difesa di Vincenzo Santapaola. I diritti costituzionali vanno rispettati anche nei riguardi di imputati e condannati per gravi fatti nonché protagonisti di vicende sanguinose che hanno scosso la pubblica opinione e che hanno ferito la nostra Repubblica. Bisognava rispondere a una semplice domanda: “Chi è?”.

Per quella che è la sua memoria storica, vi sono stati casi simili in precedenza che possano aiutarci a capire?
Ho lavorato 45 anni nei giornali, prima a Cosenza, e poi dal 1962 al 2001 a Milano (Il Giorno e Il Sole 24 Ore). Mi sono occupato di mafia, parlo di Luciano Liggio organizzatore di sequestri di persona nel Nord Italia (con una base operativa anche nella periferia di Catania). Ho seguito negli anni ’60 e ’70 la prima sezione penale del tribunale di Milano e il tribunale penale di Monza: anche attraverso i processi per diffamazione a mezzo stampa, quei giudici hanno ricostruito la storia del nostro Paese. A Monza in particolare si è parlato anche della strage di Ciaculli e di Tano Badalamenti (confinato alla Canonica Lambro), a Milano non solo della “banda Liggio-Guzzardi”. Mai i giornali milanesi hanno taciuto o hanno sottovalutato il fenomeno. Il “crac Sindona”, con i suoi risvolti tragici – delitto Ambrosoli soprattutto e poi il suicidio in carcere del banchiere messinese – , è stato raccontato con passione civile e con grande impegno. Quelli erano anche gli anni tragici e sanguinosi del terrorismo rosso e nero. Non è mai accaduta una vicenda simile a quella di Catania 2008.

Data l’eccezionalità del caso, quali potrebbero essere le reazioni dell’Ordine dei Giornalisti?
I Consigli dell’Ordine sono chiamati dalla legge professionale e dalle sentenze della Corte costituzionale a vigilare sulla condotta degli iscritti e anche sulle condotte omissive degli iscritti, che, con i loro “omissis”, minano i principi della buona fede e della lealtà verso i lettori nonché il rapporto di fiducia che deve esistere tra stampa e cittadini. Il giudice disciplinare amministrativo è l’Ordine regionale. Il Consiglio nazionale è giudice disciplinare amministrativo d’appello. In caso di inerzia, il Consiglio nazionale, informato, potrebbe decidere di affidare il procedimento a un altro Consiglio regionale.

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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