Sant’Agata tra mito e realtà

La storia di Agata, vergine e martire, è per tutti i catanesi un bagaglio culturale indispensabile. La quindicenne, figlia di una benestante famiglia catanese e che voleva dedicare la propria vita a Dio, fu vittima delle attenzioni del proconsole romano Quinziano, che se ne invaghì. Questi, ricevuto il rifiuto da parte della ragazza, la fece torturare fino a farle strappare i seni con delle tenaglie. Dopo che in soli quattro giorni le ferite furono rimarginate grazie all’intervento di San Pietro, Quinziano nel colmo della sua rabbia decise di farla bruciare viva. Mentre Agata si trovava nella fornace, un forte terremoto scosse la città di Catania e il Pretorio crollò parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano. La folla dei Catanesi spaventata, si ribellò all’atroce supplizio della giovane vergine, costringendo il proconsole a far togliere Agata dalla brace e a farla riportare agonizzante in cella, dove morì qualche ora dopo.

Secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non bruciò il velo che lei portava. Il velo divenne perciò una preziosa reliquia che venne da subito venerata e a cui si attribuì il potere di fermare le eruzioni dell’Etna.
Nel 1040 le reliquie della santa, furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli. Nel 1126, però,  due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese (o calabrese secondo altre versioni) Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa. La nave approdò la notte del 17 agosto in un posto denominato Ognina, tutti i catanesi risvegliati dal suono delle campane si riversarono nelle strade in camicia da notte.

Nessun catanese che ha sentito raccontare questa storia dai genitori o dai nonni si sognerebbe di metterebbe in discussione questa storia. Però, basta fare alcune semplici ricerche per scoprire che almeno due elementi di questa storia sono quantomeno discutibili. Innanzi tutto l’origine del cosiddetto “sacco”, abito bianco che tutti i fedeli indossano durante le processioni. Secondo la tradizione sarebbe un modo per ricordare quella notte del 1126, quando al ritorno a Catania delle reliquie di Sant’ Agata i cittadini uscirono di casa in camicia da notte. Ma l’origine dell’attuale abito votivo che si compone appunto un camice bianco legato in vita da un cordino, un cappello nero e dei guanti bianchi potrebbe essere molto meno romantica. Alcuni studi hanno smentito questa tradizione in quanto l’uso della camicia da notte risale al 1300. L’origine è invece di natura religiosa. Infatti l’abito bianco sarebbe solo una rappresentazione della veste liturgica, il cordoncino rappresenterebbe un cilicio, mentre il berretto nero sarebbe solo il simbolo della cenere di cui i penitenti si cospargevano il capo.

Altro elemento che potrebbe essere messo in discussione, è l’età di Agata al momento del suo martirio. Quindici anni, secondo alcuni studi, sarebbero troppo pochi, mentre sarebbe più credibile il raggiungimento della maggiore età, cioè ventuno anni. Infatti era questa l’età minima per poter essere consacrata diaconessa, carica sicuramente rivestita dalla santa visto l’ abito con cui viene rappresentata, ovvero una tunica bianca con pallio rosso. Possiamo immaginarla, più che come una ragazzina, piuttosto come una donna con ruolo attivo nella sua comunità cristiana. Questo, unito alla voglia di estirpare le terre della benestante famiglia di Agata, farebbero pensare più a ragioni politiche che ad una infatuazione amorosa del proconsole.

La verità è sempre meno affascinante di quello che viene tramandato di generazione in generazione, e per quanto dovrebbe essere lo scopo di ogni ricerca scientifica e giornalistica, in questi casi è forse meglio assecondare la tradizione e accettare le drammatizzazioni, come un martirio in giovane età, o immagini suggestive come quella dei cittadini catanesi che nel cuore della notte come fantasmi escono al suono delle campane per accogliere le reliquie. Saranno forse meno realistiche, ma sono necessarie per creare il mito e la leggenda intorno a cui si forma spesso l’identità di un popolo.

Alberto Conti

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