Forse siamo troppo esigenti con i bidelli. O, più probabilmente, il nostro sistema universitario non è in grado di valorizzare il suo capitale umano. Della seconda opzione può raccontarci Sabina Berretta, classe 1961, neuroscienziata nata a Catania con il sogno di fare ricerca. All’ombra del vulcano Berretta ci è cresciuta e ha iniziato i suoi studi. Qui ha visto chiudersi più di una porta in faccia a causa di una burocrazia asfittica e di un sistema universitario impossibile da scalare. Oggi, oltreoceano, dirige il Translational neuroscience laboratory, a Harvard medical school, ed è la direttrice scientifica della Harvard brain tissue resource center (Hbtrc), al McLean hospital di Boston, la più grande banca dei cervelli del mondo.
«”Troppo poco, troppo tardi“, si dice negli Usa», è questo quello che offrirebbe l’Italia secondo Berretta. Nel suo laboratorio la direttrice catanese conserva, cataloga e seziona i cervelli da inviare in tutti i laboratori del mondo per essere studiati, più di tremila campioni. Tutto è iniziato con gli studi all’Isef, prima di iscriversi alla facoltà di Medicina di Catania. «Concluso il corso all’Istituto superiore di educazione fisica non sapevo bene cosa mi sarebbe piaciuto fare, a parte studiare filosofia – ricorda la scienziata -. Dovendo scegliere una tesi, ho chiesto di farla in fisiologia. Così ho scoperto la mia vera passione, la ricerca nel campo delle neuroscienze».
Fare ricerca di base applicata a un disordine del cervello, dalla schizofrenia al disturbo bipolare, era quindi l’obiettivo sin dall’inizio. Ma non solo l’amore, anche la ricerca, può essere un lusso nel nostro Paese. Così la studiosa etnea, per mantenersi durante i periodi passati in laboratorio come volontaria, ha tentato la carriera di custode nell’istituto catanese, ma per quella posizione non aveva i requisiti e le richieste erano troppe. «Non c’erano posti di lavoro e pochissimi fondi – racconta la scienziata a MeridioNews -. Per questo sono andata via. Dopo qualche anno ho avuto l’occasione di tornare, ma al punto in cui ero non c’era confronto fra le possibilità che mi si erano aperte negli Stati Uniti, dove lavoravo come ricercatrice al Mit, uno degli Istituti di ricerca più famosi al mondo, e le possibilità limitatissime che avrei avuto in Italia», spiega Berretta.
E dei colleghi siciliani con cui lavorava la neuroscienziata cosa ne è stato? «Alcuni sono riusciti ad avere posti di ricerca, con molte difficoltà – racconta -. E molti sono andati via come me o hanno cambiato direzione. Fra coloro che hanno continuato a fare ricerca ce ne sono di molto validi e capaci, ma non hanno ancora abbastanza supporto – continua la dottoressa -. Come è ovvio, per fare ricerca bisogna avere infrastrutture, fondi, libertà di assumere come ricercatori gente che ha esperienza e capacità, in un contesto culturale che supporta le collaborazioni». Lei però non si è fermata. «Mio padre mi diceva sempre “Sei testarda come un mulo. È il tuo maggiore difetto e il tuo pregio migliore”, – conclude Sabina Berretta -. Penso che avesse ragione, mi conosceva bene. Non mi sono arresa perché non riuscivo a capire cos’altro avrei potuto fare, se non ricerca».
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