Rosalia santa dell’inclusione di popoli e generazioni «Con il suo culto si costruisce l’identità palermitana»

«Santa Rosalia è sempre stata in un certo senso la santa dell’inclusione, a dircelo è proprio la sua storia». A raccontarlo a MeridioNews è il semiologo Francesco Mangiapane, docente all’Università di Palermo, che proprio alla Santuzza e al suo culto ha dedicato uno studio approfondito, contenuto nel libro Palermo, ipotesi di semiotica urbana edito da Carocci. Uno studio che parte dal principio, cioè da quello spazio sacro che è Monte Pellegrino, strettamente collegato alla storia di Rosalia e al Festino. È una storia, quella della patrona della città, collegata ai cosiddetti cavatori, coloro che andavano sul monte per scavare in cerca delle sue ossa. La signora che le trova, Girolama La Gattuta, era proprio una di loro. «Questi cavatori erano persone povere e di umili origini, spesso arrivavano in città dalle campagne. Erano degli immigrati – azzarda il professore – senza soldi né prospettive, alla ricerca del colpo di fortuna che cambiasse le sorti della loro vita».

Dal Medioevo in poi, quindi, Monte Pellegrino si popola di personaggi tenuti ai margini della città: oltre ai cavatori, infatti, ci sono anche gli eremiti francescani, «dediti alla stessa ricerca delle ossa e anche loro gente semplice e umile, contrariamente da quello che ci si aspetta dai teologi dell’epoca, tenuti ai margini del sistema ecclesiastico», spiega il docente. Un culto trasversale, quello della Santuzza, interclasse e intergenerazionale che ha sempre accomunato un certo spirito cittadino. «Alla base c’è il suo legame con questi nuovi palermitani, cosa che in un certo senso è stata spesso enfatizzata. Ad esempio – continua Mangiapane – il carro di quest’anno è questo grande barcone: sembra una trovata politico-ideologica, in realtà non lo è affatto, è dentro l’identità e la storia della santa stessa. È stato ripreso proprio il suo essere un soggetto di inclusione. Possiamo anche dire che venerando la santa si diventa palermitani».

Un esempio lampante a favore di questa idea è la comunità Tamil di Palermo: «Pur essendo formata da soggetti di religione indù hanno sviluppato una grande devozione nei confronti della santa. Un aspetto dalla forza simbolica importante e che trascende il mero aspetto religioso in sé, la loro devozione la rende una sorta di simbolo urbano in grado di coinvolgere persone di fedi, classi e appartenenza totalmente diversi», puntualizza il semiologo. La storia stessa del Festino, poi, è a sua volta storia di un culto urbano: «È sempre stato una sorta di grande paratone, una festa kitch, popolare e libera, rispetto all’altra festa legata a santa Rosalia che si fa salendo a Monte Pellegrino, quella più propriamente religiosa». Una celebrazione complessa, il festino, che celebra l’assunzione della santa come patrona della città, un avvenimento quindi politico-burocratico legato all’istituzionalizzazione della sua figura.

La trasversalità di questo culto deriva direttamente da tutti questi fattori. «Il fatto che attiri tutte le generazioni, compresi i giovanissimi, non è una moda estemporanea né una novità del momento – torna a dire – L’idea è che questa palermitanità si condensa in questa devozione, devozione che per definizione è a sua volta inclusiva e quindi si rivolge a tutti. Chiunque voglia sperimentare il senso urbano della città, chiunque voglia vivere Palermo deve mettersi in relazione con questa devozione e col Festino che la rappresenta. Giovani, bambini, ricchi e poveri, stranieri e locali, tutti. Questa devozione alla santa diventa un momento di costruzione e di realizzazione dell’identità palermitana, che ovviamente è rivolta a chiunque ne voglia fare parte». Tutti quelli che nella storia hanno cercato di prendere l’identità palermitana l’hanno fatto proprio attraverso questa celebrazione, dai cavatori del Medioevo che cercavano le sue ossa per fare fortuna all’odierna comunità Tamil, devota anche molto più dei locali.

«I derelitti, gli ultimi della società, i rom nel nostro caso, quelli di cui spesso la città si dimentica ma ci sono anche loro, hanno pure uan grande devozione per la Santa, pur essendo musulmani. Nuovi cittadini che grazie alla santa trovano l’identità». L’idea alla base dello studio condotto dal semiologo è che gli immigrati in città non vogliono affatto rubarci l’identità: «Tutto il contrario – dice Mangiapane – Alcuni posti di Palermo erano completamente dimenticati, luoghi identitari rimessi simbolicamente in moto dagli immigrati, che hanno contribuito a ricordarne l’importanza. Uno su tutti Ballarò, che da mercato morente ha ritrovato la sua identità grazie a queste persone che ci sono andate a vivere, riprendendo la funzione storica di mercato che aveva sempre avuto». Un caso felice in cui gli immigrati, anziché ingaggiare questa guerra identitaria raccontata dai media e dai potenti, in realtà ci aiutano a ritrovare noi stessi. «Santa Rosalia questo ruolo a Palermo lo svolge da sempre e alla luce del sole».

Al suo fianco, c’è anche il Genio di Palermo, legato a doppio filo alla storia della Santuzza. «Hanno la medesima radice, quella dei culti punici – spiega Mangiapane – Una coppia sempre presente nell’immaginario cittadino. Basta ripensare alla famosa frase recitata ogni 14 luglio: “Viva Palermo e santa Rosalia”. Il Genio nella tradizione viene anche chiamato Palermo, quindi con quella frase si sta facendo riferimento anche a lui». Due nomi e due simboli popolari che quindi camminano l’uno di fianco all’altro, inscindibili «sia per le origini storiche e mitologiche, sia per il ruolo che hanno avuto di icone popolari e simboli urbani». Una coppia che ogni anno durante il Festino si riunisce nella messinscena dell’identità cittadina.

Silvia Buffa

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