Romanzo a puntate, colpo di scena In paese donne si trasformano in galline

Qui (Augusto Malcelati) aveva mosso i suoi primi passi, qui aveva proseguito gli studi, qui aveva lasciato il suo cuore quando fu costretto ad allontanarsi per laurearsi in giurisprudenza a Mitiga sul Sintro.
Qui era rientrato ancora giovane, aveva ingrossato le fila del Partito Popolare per il Progresso, e si era sposato con Ricuccia Malambrana, sommamente stupida e bella.
L’aveva conosciuta durante uno spettacolo di beneficenza e subito aveva compreso che avrebbe potuto amarla per tutta la vita; e questo perché Ricuccia non aveva una posizione su nulla e il pensiero per lei non era che un’irritante zanzara da scacciare; non tutti i pensieri, si badi bene: soltanto quelle idee che mancavano di nettezza, quelle idee costantemente sull’orlo dell’ambiguità.
Cioè tutte, rifletteva dentro di sé, Augusto Malcelati.
Il quale, è bene intendersi, amava incondizionatamente e totalmente la consorte; ai concetti, alla logica si dedicava lui.
Anche adesso che aveva concluso il suo discorso, la moglie lo guardava inebetita, ma ciò  bastava ampiamente al primo cittadino: una donna adorante che non gli chiedeva mai il perché di nulla, un’amministratrice silenziosa e accorta nella sua ordinarietà domestica.
Per amante il sindaco si concesse soltanto Serbottana, quel luogo dove, prima della morte di Ludmilla Bengasi, non era accaduto mai niente d’eclatante; o meglio, nulla d’eclatante che non riguardasse la vita: morti, nascite, incidenti, accidenti e una quieta follia.
Quieta fino a pochi mesi prima, come se attendesse l’occasione migliore per esondare e travolgere tutto.
A memoria di Augusto Malcelati, Ludmilla Bengasi era a Serbottana dai tempi delle chiese barocche, dai tempi delle decorazioni arabe; insomma, se per la Storia c’era un avanti e dopo Cristo, per Serbottana non v’era un avanti Bengasi, non nei suoi ricordi almeno.
E adesso se avesse dovuto usare una similitudine per assomigliare la defunta a qualcosa l’avrebbe paragonata ad una cappa d’afa o ad una mantella troppo ingombrante: la mantella era stata sfilata dalle spalle del suo adorato paese ed era rimasta una follia non più impedita, libera di poter allungare le proprie spire fino ad avviluppare la sorte.
In più di un’occasione Ludmilla Bengasi lo aveva umiliato davanti ai conoscenti; lo considerava un idiota e non perdeva nemmeno un attimo per farglielo comprendere.
Spesso s’era dimostrata perfino insolente ed egli le avrebbe voluto rispondere per le rime, ma gli erano sempre mancati il coraggio e la prontezza necessaria.
Quella sera andò a dormire soddisfatto come non era mai stato: durante il comizio aveva visto negli occhi della gente approvazione e stima, era convinto di non aver mai goduto di un tale rispetto.
Tuttavia, il merigno, nei giorni a seguire, si fece sempre più imponente e a stento il gabbione riusciva ormai a contenerlo.
La gente cominciava a temerlo: il suo piumaggio s’era fatto bluastro, pareva un Buddha pennuto.
In una drammatica riunione della giunta comunale vi fu anche chi propose di abbandonare l’abitato, di costruire altrove, dove la maledizione, che si era così potentemente abbattuta su tutti loro, non potesse arrivare. Ovviamente la soluzione non venne mai presa seriamente in considerazione, anche se vi fu chi, in effetti, andò via.
L’intera famiglia Cerbatti caricò tutti i suoi beni su una pariglia di furgoncini e partì, lasciandosi dietro i ricordi. Il Circolo del Buon Sorriso trasferì la propria sede in un paesino limitrofo: Mattanza Rienza.
Iniziava a spargersi la diceria che alcuni abitanti di Serbottana avessero fondato la Lega del Pennuto Cobalto, in onore del merigno; si raccontava anche che fossero la causa stessa delle varie morti e che il cuore delle vittime fosse stato dato in pasto al volatile notturno.
Il giorno del 28 ottobre, per la sagra del formaggio cinerino, accadde l’ennesimo evento inquietante.
Le bancarelle erano poste a cerchio nella piazza del centro storico e, nonostante le voci degli strani accadimenti si fosse diffusa in tutta la regione, una certa quantità di forestieri si aggirava, incuriosita, per il paese.
La sagra del formaggio cinerino, ad esclusione della festa di Santa Eufisina, era il momento culminante nella vita della cittadina.
Il latticino al quale era consacrato quel giorno assumeva quel suo colore così particolare solo in determinate condizioni ambientali e grazie a particolari procedimenti caseari. Il suo gusto, inizialmente quasi terreo, esplodeva in un’esultanza papillare inattesa. Di conseguenza il prezzo all’etto poteva raggiungere cifre incredibili. Ma torniamo a noi.
Quel giorno si aggiravano, tra i profumi e le fragranze degli alimenti esposti, donne intente a confabulare e, ovviamente, a coccoveggiare; i bambini, in gruppi di quattro o cinque, giocavano a biglie, o a rincorrersi tra le urla dei venditori; l’aria del mattino pervadeva tutto, con un tocco sottile e pungente, e, della sua frescura, beneficiavano perfino le voci tenorili degli artisti di strada che, presi dall’euforia, intrattenevano il pubblico con atti unici e poesie.
Il momento atteso da tutti era però l’arrivo dei giocolieri e dei trampolieri: piccoli, geniali movimenti di straordinaria abilità bastavano a rendere speciale l’occasione.
Fu proprio allora, quando quelle straordinarie visioni iniziarono a salutare e a far girare gli stendardi, che accadde l’imponderabile.
La signora Pennacchi, che aveva bevuto alcuni bicchieri di vino rosso, ma che, altresì, era rimasta lucida nel corso dei festeggiamenti, cominciò a starnazzare.
Chi l’avesse osservata non poteva che sorprendersi a pensare a quanto ella ormai somigliasse ad una gallina:  non era più lei, ma un animale da cortile; i suoi cocò risuonavano sempre più forti e decisi.
Inizialmente si credeva che la signora, solitamente abbastanza spiritosa, nonché micidiale imitatrice d’uccelli, volesse semplicemente scherzare, ma dopo un po’, quando cominciò a beccare risolutamente i culi dei passanti e a correre con le braccia strette ai fianchi, la gente percepì, sempre più intensamente, un brivido.
Il cocò della vedova era infatti irrimediabilmente ostile; era un cocò livoroso, acido, livido e alquanto disperato: come quando un bipede non attende nient’altro che farsi spezzare il collo con un gesto secco. Proprio quando alcuni avventori le si avvicinarono per frenare i suoi movimenti da epilettica, ella strabuzzò gli occhi, torse le spalle, sbavò abbondantemente un siero giallastro, gorgogliò e, infine, stramazzò al suolo, ormai inerte.

[Illustrazione di Francesco Guarino]

Sergio Salamone

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