Roberto Vecchioni: “La cultura salverà il mondo”

Si è “esibito” – per così dire – due volte Roberto Vecchioni, il cantautore milanese che per la prima volta ha scelto la provincia di Ragusa come palcoscenico di due differenti performance: la prima, per tenere proprio nel capoluogo ibleo una conferenza dal titolo “Da Saffo a De Andrè: l’anima, le parole, la musica”; la seconda, per trasformare le parole in canto, nell’intima cornice del Teatro Italia di Scicli.

Il concerto del cantautore, venerdi 12 novembre, si è inserito nel calendario di “Mulici d’Autunno”, l’appendice alla Festa della Madonna delle Milizie, che si tiene a Scicli a fine maggio e che quest’anno ha beneficiato di un finanziamento regionale, concesso – ha spiegato l’amministrazione – per provare a destagionalizzare i flussi turistici. La festività  è dedicata alla patrona Maria Santissima delle Milizie, che – secondo tradizione – scese in groppa al suo bianco destriero per salvare gli sciclitani dall’invasione degli infedeli. Una storia che, unendo sacro e profano, si è prestata perfettamente ai miti cantati da Vecchioni – laureato in Lettere Classiche, prof di liceo per una vita, e ora docente universitario presso gli Atenei di Milano e Roma, solo per citarne alcuni.

Questo è uno spettacolo improponibile in altre parti d’Italia” – ha esordito l’autore, rivolgendosi al pubblico – “ perché voi siete Sicilia, perciò siete anche Magna Grecia. Qui è nato il senso di vivere e d’amare, qui è nata la cultura”. Ricordando, così, ai presenti la loro doppia identità: quella contemporanea (sicula) e quella storica, di antica derivazione. E svelando al contempo anche la propria: quella ben nota di cantautore e quella meno sotto i riflettori di docente, assolutamente inscindibili.

Vecchioni ha cantato il mito, recuperandone i valori ed i modelli, in un costante parallelismo tra il passato ed il presente. “Omero parla di gente che cerca qualcosa” ha spiegato il cantautore alla platea – “ che è quel che fanno anche i poeti e tutti gli pseudo-artisti come me: ovvero capire qual è il senso della vita”.

Intrattendo e insegnando, il professor Vecchioni ha insistito sull’importanza della cultura, definendola il senso dell’agire di ogni vera civiltà e riportando alla luce valori quasi demodè. Basti pensare all’antico senso della vergogna, ovvero al non esser mai inferiori a se stessi, che “è molto di più che avere le palle”, ha ironizzato.

Ma più che la storia del mito, Vecchioni ha cantato quella della natura dell’essere umano, identica nei secoli , ma differente nelle sue manifestazioni. Agli occhi del cantautore, infatti, persino la guerra poteva dirsi onesta nell’antichità, allorquando si combatteva uno contro uno e non esistevano mezzi vili come le bombe a mano. Mentre oggi – viene da pensare – le passioni umane hanno abbandonato il mito, lasciando il posto ad una spaventosa e sterile cronaca nera.

Le due ore di concerto hanno visto passare in rassegna – letteraria e “canzonistica” – la mitologia classica più rappresentativa: l’”Aiace” di Sofocle; la “Fedra” di Euripide (immortalata nella straziante “Leggenda di Olaf”) ed il mito di”Orfeo ed Euridice”, ripensato e cantato in chiave “pavesiana”, ovvero constatando la definitività della morte e l’inevitabile consapevolezza che il vero obbrobrio sarebbe riportare tra la vita – e non in vita! – qualcosa di morto.

In un contesto così poetico e struggente, non poteva esserci spazio per i grandi successi. Eppure Vecchioni non ha rinunciato alla sua epidermica esigenza di cantare l’amore, portando sul palco “Il cielo capovolto”, componimento dedicato all’ inventrice della canzone d’amore: Saffo di Lesbo.

Tra le melodie più toccanti, “La bellezza”: composizione sull’amore che invecchia ma che non sostituisce il suo oggetto, mettendo in crisi il mito dell’eterna giovinezza e della sua esteriorità.

Accompagnato al pianoforte da Patrizio Fariselli, musicista del gruppo storico degli Area, Vecchioni ha comunque concluso con tre cavalli di battaglia: “Samarcanda”, “Luci a Sansiro” e “Le lettere d’amore”, “estortagli” dall’incessante applauso del pubblico in sala. Qualcuno gli ha anche proposto “Bunga bunga”, ma il cantautore milanese ha affermato elegantemente che non occorre essere chissà chi per cantarla.

Antonia Maria Arrabito

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