«Lei in realtà ha sempre 17 anni. Ne avrebbe compiuti 43 oggi, è vero, ma non gliel’hanno permesso. Questo giorno è il continuo ricordo di quello che le è stato rubato, un simbolo di un’esistenza negata». Nadia Furnari e gli altri membri dell’Associazione antimafie dedicata a Rita Atria oggi non dicono «buon compleanno». Non è un giorno di festa, non lo è più da 25 anni. Da quando la diciassettenne di Partanna, nel Trapanese, si è lanciata dal settimo piano di un palazzo in via Amelia, a Roma. Era il 26 luglio 1992, solo una settimana prima era stato ucciso nella strage di via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino, il magistrato che le aveva mostrato un’alternativa concreta, un’altra scelta da poter compiere. È nella magistratura, infatti, che Rita cerca giustizia per gli omicidi del padre, morto quando lei ha solo undici anni, e del fratello Nicola, del quale ha raccolto per anni le confidenze più intime su Cosa nostra e i suoi affari. Una famiglia mafiosa, la sua, che rinnega con tutte le forze compiendo una scelta molto precisa: quella di stare dalla parte della legalità, dalla parte di uno Stato che, però, non l’ha protetta abbastanza.
«Lei simboleggia il fatto che c’è stata e c’è una società disattenta, nel senso che oggi, se fosse viva, non sarebbe ricordata, l’avrebbero declassificata a figlia di mafioso – spiega Nadia Furnari – Quindi ci ricorda la nostra ipocrisia, il nostro voltarci dall’altra parte se qualcun altro come lei prova a liberarsi dal fardello di una famiglia non perbene. Siamo subito pronti a dire “è il figlio di un mafioso”». È grazie a Rita Atria e alla sua storia che oggi il trattamento per i testimoni di giustizia è cambiato rispetto a 25 anni fa. «Lei oggi rappresenta un grande messaggio, soprattutto per le generazioni più giovani – prosegue Furnari -. Di lei sono state scritte molte cose e la sua storia l’hanno raccontata in tanti, ma in pochi si sono presi la briga di approfondire davvero, di cercare la famiglia, di rintracciare quella madre». Per conoscere davvero la giovane rimasta diciassettenne per sempre, Furnari consiglia di leggere e rileggere il suo diario, è lei che lo ha lasciato per noi. «Rita Atria ci insegna a non giudicare e ad andare fino in fondo, sempre», insiste.
«Non giocare con quel bambino!». Nadia Furnari è convinta che diremmo questo ai nostri bambini rispetto al figlio di una famiglia vicina alla mafia. Una condanna verso i più piccoli sui quali, ancora oggi, facciamo ricadere le colpe dei padri. «Ogni volta che si pronuncia o si pensa una frase del genere è come aver detto: “Non giocare con Rita Atria”, semplice». Suggerisce, piuttosto, di fare una sforzo mentale, di andare al di là dei pregiudizi e dare una possibilità di inserimento diversa a quel bambino che si vorrebbe invece tenere a distanza. «Farlo partecipare alla vita, non escluderlo. Dargli spunti di crescita nuovi – dice -. Che siano figli di mafiosi o di musulmani o di immigrati o di omosessuali. Oggi c’è sempre una discriminante». Sarebbe una vera rivoluzione, quindi, iniziare a pensare che i figli di questo o quell’altro padrino non per forza saranno dei mafiosi a loro volta. «Ci siamo educati solo fra di noi, ma visto il risultato che abbiamo ottenuto nella società odierna, non mi pare che abbiamo fatto un grande lavoro», conclude amara Furnari.
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