«Da deputato regionale ho maturato 380 euro di pensione mensile, ma io nella vita ho sempre fatto altro e vivo di altro. È giusto così». Vincenzo Fontana, medico primario all’ospedale di Agrigento, è uno dei quattro ex deputati che vive già quello che il Movimento 5 stelle propone di applicare per tutti i parlamentari regionali in maniera retroattiva: trasformare il vitalizio in pensione calcolata interamente col sistema contributivo. Quello, cioè, che normalmente avviene per tutti i cittadini. E che dal 2012 – col nuovo regolamento introdotto – vale pure per gli ex deputati dell’Assemblea regionale siciliana che abbiano compiuto 65 anni. Ma solo per quelli che hanno svolto l’attività successivamente al 2012. Per tutti gli altri il vitalizio non si tocca.
Così i primi a ricevere la pensione sulla base dei reali contributi versati sono quattro deputati che hanno svolto un solo mandato (nell’ultima legislatura) e non sono stati rieletti: oltre a Fontana, ci sono l’insegnante Marika Cirone (Pd) e l’ex questore di Gela Antonio Malafarina (Megafono), fedelissimo di Rosario Crocetta. Il quarto è proprio il governatore uscente. Per loro l’Ars spende 2.832 euro al mese. In media poco più di 600 euro ciascuno. Non certo numeri da casta. Un trattamento persino più stringente di quello che i cinquestelle vorrebbero applicare. Nella proposta di legge presentata all’ufficio di presidenza – e che ha scatenato un vespaio di polemiche e di accuse di populismo da parte della maggioranza – è previsto un tetto minimo di 660 euro. «Io – spiega Marika Cirone – sono un’insegnante in pensione, ho sempre vissuto del mio lavoro. E reputo sacrosanto rimodulare il vecchio regime, ma va fatto con serietà, i diritti acquisiti non si cambiano in maniera retroattiva, perché il provvedimento verrebbe sicuramente impugnato».
Al momento l’Ars paga ogni mese 761mila euro per garantire 158 vitalizi ad altrettanti ex deputati. A cui si aggiungono altri 165mila euro per 30 deputati che rientrano in un sistema misto, detto pro-rata: retributivo per gli anni svolti prima del 2012, e contributivo per gli anni successivi. Ci sono poi i 129 assegni di reversibilità, la cui spesa mensile ammonta a 588mila euro: vitalizi che, una volta morto il deputato beneficiario, sono passati non solo alle vedove, ma anche, in quattro casi, ai figli. Tre di questi sono figli di deputati – Ignazio Adamo, Giuseppe Alessi e Natale Cacciola – che sono stati parlamentari nella prima legislatura, tra il 1947 e il 1951. Il quarto è il figlio di Luigi Carollo, deputato comunista tra gli anni ’60 e ’70. Nella proposta dei cinquestelle anche questi assegni andrebbero rivisti interamente sulla base dei contributi versati e ulteriormente ridotti al 60 per cento dell’importo della pensione che spetterebbe al deputato, qualora fosse in vita. Inoltre la reversibilità non potrebbe più scattare per altri parenti al di fuori del coniuge. Calcoli tuttavia difficili da fare, considerato che all’Ars non ci sarebbe traccia di documenti attestanti la storia contributiva dei deputati negli anni precedenti al 1980.
La proposta di legge è stata depositata all’ufficio di presidenza dell’Ars, composto da undici consiglieri. Per essere approvata necessita della maggioranza di sei: tre voti, quelli dei cinquestelle, sono certi. Ma i pentastellati sperano nell’appoggio del membro del Pd, il ragusano Emanuele Dipasquale, ma anche di due membri della maggioranza: Giorgio Assenza e Gaetano Galvagno. Il primo, deputato del movimento del presidente Musumeci DiventeràBellissima, il secondo di Fratelli d’Italia. «Giorgia Meloni ha sempre ribadito la volontà di tagliare i vitalizi – ragionano nel gruppo del M5s – mentre la Lega, (che ormai ha più di un flirt con Musumeci, ndr) voterà con noi a Roma la proposta che ha presentato il presidente della Camera, Fico. Sarebbe difficile per Assenza e Galvagno spiegare una posizione diversa».
Forte resta tuttavia il rischio di un’impugnativa alla Corte Costituzionale, perché si andrebbe a toccare un diritto acquisito in maniera retroattiva. Timore che è anche uno dei fattori per cui la proposta presentata dal Pd a livello nazionale nella scorsa legislatura (molto simile a quella del Movimento 5 stelle a Palermo), dopo aver ricevuto l’approvazione da parte della Camera, non è mai stata calendarizzata al Senato.
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