caro leandro,
il far west dei pionieri americano è lontano.
anzi lontanissimo.
è un sogno che non ci appartiene.
e voglio anch’io che non ci appartenga.
il rischio è quello di restare imprigionati nei sogni degli altri.
e di esserne stritolati, irrimediabilmente fottuti, come scrive gilles deleuze.
la rappresentazione dei pistoleri cinematografici è qualcosa che semplifica i fenomeni che stiamo vivendo in questi giorni (ma che già viviamo da anni) a tal punto da snaturarne l’essenza.
perché la rappresentazione ci inchioda a una banalità che nasconde le cose, non le rivela.
è quel luogo comune che ci appiattisce tutti e ci fa diventare bidimensionali, progetti ideati per l’informazione televisiva.
non è la televisione che si sforza a rappresentarci, siamo noi che veniamo costretti dentro schemi di rappresentazione, dentro strutture costruite “a priori”.
o aderisci perfettamente alla struttura predefinita o resti fuori dalla rappresentazione.
stringiti al gruppo, se vuoi entrare nella fotografia!
è questo che io non accetto: la rappresentazione semplificata di un fenomeno complesso.
a noi tocca il compito di studiare e di provare a capire, con fatica e sforzo.
analizzare le spinte criminali, che sono diverse dalle derive criminali.
se la sparatoria di piazza dante fosse stata la messa in atto di attentato mafioso, sarebbe stata una spinta criminale, organizzata e premeditata.
e allora, perché sparare in piazza, a piedi contro un obiettivo in motorino, davanti a 300 persone (100 delle quali conoscono l’aspirante killer per nome e per cognome), perché sparare tra la folla?
il pistolero ha esploso 8 colpi; 3 a segno; 1 ha colpito laura; 1 ha ammazzato un piccione; 3 si sono persi.
a 400 metri da laura, c’era damiano, con la bicicletta che giocava.
damiano è il nipote del pistolero.
si tratta di spinta criminale o di deriva?
gli si sono ‘ncucchiati i fili e ha sparato, come il tipo calabrese che lo stesso giorno ha ucciso due ex-fidanzate a cremona.
a cremona, non a gela.
certo, ma lui era di origini calabresi.
allora è un caso di ‘ndrangheta?
analizzare la situazione, cercare di rappresentare la complessità, cercandola nel quartiere, anche con gli occhi del quartiere.
la mafia esiste, ma non è quella televisiva.
è quella degli affari, che pippo fava con la lucidità del professionista aveva scoperto e denunciato.
una denuncia che gli è costata la vita.
chi, come noi, si occupa di comunicazione e di informazione (io mi limito a studiarla, voi la producete e quindi siete più importanti) deve riflettere sulle differenze.
come sai, ho lavorato per due anni dentro il carcere di massima sicurezza di catania bicocca.
tra i miei alunni c’erano molti condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso.
ho lavorato con loro, da insegnante di scuola, spiegando dante e boccaccio, i boschi della basilicata e la scoperta dell’america.
ma ho anche ascoltato i miei alunni: ho accolto i loro racconti di guerra e di tortura.
e ho capito che dietro il male che avevano commesso, c’erano progetti e strategie.
non erano semplici criminali, perché si rifacevano a delle regole e a un’organizzazione disciplinata gerarchicamente come un esercito.
loro erano soldati di mafia.
erano in guerra per conquistare economicamente e militarmente catania.
uno di loro, ormai ammalato di cancro e già condannato a 7 ergastoli, mi ha detto di avere ucciso 30 persone in 3 anni.
e di uno soltanto era pentito, perché era un padre di famiglia.
ma aveva dovuto ammazzarlo lo stesso, anche se era un padre di famiglia.
solo quello gli era rimasto sulla coscienza.
erano gli anni tra il 1992 e il 1994, in cui rimanevano a terra tra i 100 e i 120 uomini, tutti appartenenti a gruppi di fuoco oppure clan oppure famiglie contrapposte.
forse allora, semplificando anche il quel caso, si sarebbe potuto parlare di far west.
e, lo ripeto, sarebbe stato soltanto un titolo giornalistico a effetto, non una spiegazione di un fenomeno complesso.
ieri, leandro, mi hai detto che il ruolo del giornalismo è anche semplificare: io ti ho corretto con raccontare.
preciso ancora la mia idea.
raccontare con parole semplici, non vuol dire semplificare.
pensa a italo calvino, per la letteratura, o a umberto eco, per la saggistica.
una volta calvino si incazzò, perché tutti i critici ripetevano che era facile, e intitolò una sua raccolta racconti difficili.
eppure è questa la sfida maggiore per chi fa informazione: spiegare fenomeni complessi attraverso racconti semplici.
la narrazione è il vostro alleato principale.
la sincerità è la bussola.
sembra facile a dirsi, lo so…
un abbraccio e un in bocca al lupo per la tua carriera di giornalista,
alessandro.
Nella tavola rotonda virtuale interviene anche un’altra redattrice di Step1, Claudia Campese: pubblichiamo un estratto della sua mail che verrà richiamata nella seconda parte della risposta a Leandro del prof.
“Mafia sì, mafia no sembrava il leit motiv di ieri. Ma, se proprio volessimo non semplificare, dovremmo prima essere tutti d’accordo con l’oggetto di discussione. Chi ha sparato non era mafioso, diciamo così, e il suo movente nemmeno. Chi doveva essere colpito sì, ma è un caso. Perché a chi ha sparato ci si ‘nucchianu i fila per motivi personali. Ecco, questo a me sembra semplificare. Possiamo parlare di una mentalità mafiosa che ci pervade, chi più chi meno, tutti? Abitanti dell’Antico Corso, gente del Corso Italia in giacca e Paciotti, io che sto in via Etnea. Perché, in una città normale, se uno mi molesta, io non prendo una pistola e gli sparo in piazza. Che faccio? Lo denuncio, magari. Ma no, ma Claudia, vivi nel mondo delle favole, se lo denunci passa una vita e non gli fanno niente e poi quello è un mafioso, mica ti conviene. Ecco, questa, che mentalità è? Lo ha pensato un abitante dell’Antico Corso, potrebbe benissimo pensarlo il mio vicino di casa in via Etnea.
Eppure, chiudere gli occhi e dire che c’è la stessa identica probabilità che una mentalità del genere (visto che non parliamo di diretta affiliazione criminale) si sviluppi in un posto piuttosto che in un altro, non mi sembra corretto. Come diceva Leandro, non penso di insultare il mio ipotetico coetaneo dell’Antico Corso o di altri quartieri catanesi se noto il degrado, la violenza, la criminalità, più o meno spicciola. Credo che lo insulterei invece se negassi che a me e a lui non sono state date le stesse opportunità.
E qui torniamo al ruolo dell’Università nel quartiere. A quel noi e loro che tanto infastidisce ma che è impossibile da non notare. Sentendo tutti i discorsi fatti da noi ieri e letti qui, a questo punto mi chiedo: ma siamo noi che – immedesimatici nel ruolo del bianco colonizzatore portatore di cultura e virtù morale – ci distacchiamo o sono loro, gli abitanti storici, che ci rifiutano vivendoci come estranei espropiatori? Io ancora, in tre anni, non l’ho capito. So soltanto che noi e loro non mi piace, che quando sono in piazza Dante non mi passa per il cervello, eppure che ridurre le diversità sarebbe sbagliato e affatto risolutore. Per il bene della città, che è una sola. Mi viene in mente quando (l’anno scorso?) la direttora mi spedì per un servizio tra San Cristoforo e gli Angeli Custodi. Al ritorno, chiesi a una ragazza se stavo prendendo l’autobus giusto per tornare in centro, in via Etnea. Ecco la risposta: “Ma tu dove devi andare, a Catania?”.
Ps. E scusate se vi sono parsa spicciola ma, sì, sono una giornalista e, come dice Leandro, siamo costretti a semplificare troppo spesso. Raccontare, certo, prof. De Filippo, ma anche semplificare. Che non vuol dire, almeno per me, annullare le diversità o schiacciarsi sugli stereotipi, solo ricondurre tutti i discorsi, anche il più intricato, alla vita reale e quotidiana, quella che tutti viviamo e tutti possiamo comprendere.
Claudia Campese
***
molto interessante quello che scrive claudia, che inserisce ulteriori strati, livelli di complessità al discorso.
è chiaro che anche la mia risposta a leandro reagisce a una semplificazione, con una semplificazione equivalente e contraria.
dimentichiamo una cosa importante.
in qualche modo quella del 15 è una risposta all’iniziativa del 12, che è stata la proiezione de i cento passi.
e se il film del 12, piuttosto che ritenere un’emergenza la ricerca del dialogo, dava priorità alle accuse, l’iniziativa del 15 ha spostato l’attenzione proprio sulla necessità del dialogo.
da una parte vince la pancia, cioè la rabbia per il ferimento di laura.
dall’altra ha il sopravvento la testa, cioè contestualizzare l’accaduto e trovare delle soluzioni per rimediare.
nessuno ritiene che a catania non ci sia la mafia.
chi lo pensasse davvero, sarebbe un pazzo o un cretino.
ma la mafia non è quella del benzinaio pistolero.
è quella degli appalti truccati, degli amici degli amici, dei rapporti tra affari e politica.
poi c’è la cultura mafiosa, che ci include tristemente tutti, come ha letto benissimo ieri gino astorina.
quella del cugino che lavora alle poste e ci fa scavalcare la fila, quella del cittadino che si rivolge al proprio contatto quando gli rubano l’automobile, piuttosto che denunciare tutto ai carabinieri.
tra la mentalità mafiosa e la mafia, però c’è differenza.
io ho parlato di deriva, ma forse non sono stato abbastanza chiaro.
la deriva è una pinna, che sta al centro dello scafo.
se la togli, vai “al lasco”, cioè ti muovi senza controllare la direzione… alla deriva, appunto.
una cosa è la deriva mafiosa, che trova il suo nutrimento nella cultura, anche nostra, che nel quartiere è più radicata e radicalizzata.
ma la mafia, quella de i cento passi, di badalamenti e di santapaola, quella di pippo fava e dei quattro cavalieri dell’apocalisse è un’altra cosa.
e, scusate se insisto, con il quartiere mi sembra che abbia poco a che vedere.
io ho vissuto a picanello, al borgo, all’antico corso per 10 anni, ora vivo tra sancristoforo e gli angeli custodi.
forse la zona di piazza dante è tra le più tranquille, in questo senso.
un’ultima precisazione.
raccontare con parole semplici non è semplificare.
il giornalismo, secondo la mia piccola esperienza di pubblicista non praticante (che ha sempre e solo scritto di cinema, quindi di giornalismo vero non capisce nulla), è proprio raccontare in maniera semplice fenomeni complessi, senza però inciampare nei luoghi comuni.
grazie a leandro per aver costruito questa bella tavola rotonda,
alessandro
Il testo è stato editato secondo precise disposizioni dell’autore (n.d.r.)
* Alessandro De Filippo è responsabile del laboratorio multimediale di sperimentazione audiovisiva (la.mu.s.a.) e docente di Storia e Critica del Cinema presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Catania.
[Foto di Eleonora Tavella – Neda Free Reporter]
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