Le arance sono tra gli emblemi della Sicilia, eppure la loro raccolta gronda sangue. Lo accerta il secondo rapporto #filiera sporca: con un sito e un lavoro lungo un anno. Un documento di 62 pagine tra infografiche, storie e dati che adesso è pure consultabile online. «È stato come raccontare una guerra» ha detto il giornalista Antonello Mangano, tra gli autori del rapporto, durante la presentazione avvenuta ieri alla Camera dei Deputati. «Nei campi italiani l’anno scorso sono morte dieci persone, tra cui tre italiani. Che per raccogliere le arance si debba rischiare la vita è veramente un paradosso».
Se ciò avviene è perché il mondo dell’ortofrutta, narrato negli anni come uno dei fiori all’occhiello del made in Italy, vive in realtà all’insegna dello sfruttamento. Attraverso un lavoro schiavile che passa anche per l’utilizzo di migranti richiedenti asilo, come quelli del Cara di Mineo. Tutto alla luce del sole. Scorrendo la ss117 nei pressi del centro di accoglienza più grande d’Europa si scorgono numerosi migranti che in bicicletta vanno nei campi attorno alla piana della cittadina del Catanese, dove si producono le pregiate arance rosse di Sicilia.
Già alle 8 del mattino gli ospiti del Cara sono dietro i cancelli. Chi può si reca direttamente in bici a lavorare, dopo aver comprato l’unico mezzo di trasporto che è loro consentito direttamente all’interno del Cara. Gli altri si siedono al bordo della strada e attendono che i produttori li vengano a prendere. Tutti tornano in serata: dopo aver lavorato per ore sotto il sole, con ritmi infernali, per 10-15 euro al giorno. Nell’attesa che vengano riconosciuti come rifugiati, lavorano in nero e senza alcuna garanzia. «Al Cara avviene una forma di sequestro di massa dei richiedenti asilo» continua Mangano. «Mineo racconta l’Italia meglio di qualsiasi altra storia».
Lo sfruttamento nei campi è ovunque, e vale sia per migranti che per italiani. Per le aziende ad esempio è diventata una prassi persino riprendersi il cosiddetto bonus Renzi da 80 euro. Oppure si pensi all’utilizzo dei voucher: nati principalmente per il lavoro agricolo bracciantile, oggi si usano addirittura per le prestazioni in ambito universitario. Sono le campagne ad aver fatto scuola. In questo modo il datore di lavoro acquista un ticket e si tutela da eventuali controlli. Mentre le restanti giornate di lavoro effettivo sono pagate in nero. Lavoro grigio, insomma, altro che pulito. E le truffe non mancano. Un settore, quello agroalimentare, che in Sicilia mostra tutti i propri punti deboli. Con conseguente aumento irrefrenabile delle importazioni da Egitto, Marocco e Spagna, mentre dal Brasile arriva direttamente il succo d’arancia o di limone.
È vero che il 2016 è stato l’annus horribilis dell’agricoltura siciliana, complice una stagione con poche piogge. Ma la crisi viene da lontano. Secondo Fruit Imprese Sicilia, associazione che raccoglie diverse aziende agricole, «il surplus di frammentazione insieme al deficit di aggregazione hanno portato al risultato di una progettualità limitata, perdita di competitività, maggiori costi e minori risorse». Ma in cosa consiste esattamente la filiera agroalimentare? Al livello più alto c’è la Grande distribuzione organizzata (Gdo), cioè le multinazionali che si occupano della distribuzione dei prodotti. I supermercati, insomma. A scendere le multinazionali come Coca Cola o Nestlè che producono i succhi da destinare alla vendita e agli scaffali della Gdo. Al livello intermedio ci sono le Organizzazioni di produttori (Op) e i commercianti, quindi i fornitori e le singole aziende. Infine l’anello più debole della catena, quello su cui vengono riversate le storture dell’intero sistema produttivo: i lavoratori.
Anche sulle Op, inoltre, la Sicilia ha molto da recriminare. Nonostante la spinta che viene dall’Unione Europea e che invita i produttori locali ad unirsi. «Invece di assolvere alla loro funzione di aggregazione dei piccoli per bilanciare la forza dei grandi – si legge nel rapporto – spesso sono loro stessi a fagocitare il mercato aumentandone le capacità». E non è raro trovare Op che si formano esclusivamente per intercettare i contributi comunitari. Di fronte a uno scenario così complesso e drammatico, diventa allora vitale un cambio di prospettiva e di approccio. Per gli autori, prioritarie devono essere l’etichetta narrante sui prodotti agroalimentari (inventata da Slow Food), in modo da favorire una scelta consapevole dei consumatori, e la costituzione di un elenco pubblico dei fornitori.
Al Senato sono ferme una serie di proposte che vanno in questa direzione. E poi vengono delineate altre possibili soluzioni: dall’incentivazione di un’agricoltura che non sia più schiava del profitto a una riforma delle organizzazioni di produttori. Con un’osservazione che è anche un monito: «Un’azione della società civile (sindacati, consumatori, organi pubblici) può riportare le imprese alla loro responsabilità».
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