“Che cos’è, questo perdono di cui si parla, il diritto a non perdonare? Dove finisce la vittima e dove comincia il carnefice? Cosa cambia, cos’è cambiato 61 anni dopo l’eccidio? Sono solo passati sei decenni?…”
Ho 44 anni, e mi ricordo. Ricordo i racconti di mio padre su mio zio, “quello un po’ strano”, che aveva passato, dal ’52 al ’56 ricoverato in uno dei vari ” Dispensari psichiatrici”, sottoposto alle cure di allora: la cura del sonno, il coma insulinico, la terapia convulsivante e l’elettroshockterapia.
Chi era mio zio? Un povero pazzo, certo, ma fu anche quello che, alle 14,15 circa, verificò che nel carrettino della spazzatura posto in via Rasella l’esplosivo fosse ben posizionato. Tutto qui. Un manovale della guerra e del dolore. Un contadino, come tutta la mia famiglia, originaria della Ciociaria: mio nonno aveva nove figli che, a parte l’unica femmina, venivano regolarmente pestati su ordine del podestà di allora appena accadeva qualcosa in paese. Il perché era semplice da capire: non ce n’era uno in famiglia che non fosse socialista.
Allora allevavamo cavalli, i migliori che poteste trovare (io, da brava “sciampista”, molto tempo dopo, ho cominciato a montare a quattro anni e mezzo, e più in là ho fatto anche qualche concorso ippico…): i repubblichini non ce li requisirono, ce li ammazzarono con un colpo di pistola, uno dopo l’altro. Erano 26. E 335 i martiri delle Fosse Ardeatine. Uccisi come cavalli, a caso.
E se non abbiamo chiesto mai giustizia per i “danni collaterali” (come quello di mio zio e di tanti come lui, e tante, tante storie…), come potremmo anche solo pensare al “perdono”? Il perdono pertiene all’etica, alla morale, alla mistica, non alle leggi di una società civile. Chiedete ai parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine se sono disposti a perdonare. Ma non fate i giornalisti dell’ultima ora, non chiedete ai parenti dei detenuti politici, chiedete a quelli i cui parenti furono presi qualche giorno prima (come i cavalli) in qualche rastrellamento (magari “segnalati” dal panettiere sotto casa), chiedete loro se desiderano esercitare “il diritto al perdono”.
Zio Pietro, dopo tutte le vicissitudini che aveva passato, fu colpito da un ictus che lo rese paraplegico, e una volta rimasto vedovo ( cioè privo di assistenza), finì in un ospizio per persone non autosufficienti, e l’ultima volta che andai a trovarlo mi disse (in un raro momento di lucidità): “Sai, Roma è brutta, a Roma abbiamo fatto la vita dei topi, sempre nascosti, sempre sottoterra.”
Io mi intenerisco di continuo alle sorti di bambini e anziani, non consento nessun abuso nè negazione di diritti, e questo mio pensiero presuppone la presunzione d’innocenza e dell’essere indifesi. Priebke e Pinochet sono anziani, ma non godono dei privilegi di cui sopra: hanno sulle loro spalle atrocità che valicano necessità di ordine pubblico, ordini superiori (pregasi leggere “La banalità del male” di Hanna Harendt), o qualsiasi presunzione d’innocenza. Mi spiace per Adriano Sofri, che vorrei vedere libero prima possibile, ma io e mio zio Pietro non perdoneremo. Mai.
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