Quasi uccisa dall’ex, lasciata sola da Stato e associazioni Lidia Vivoli: «Io ho denunciato e quindi non merito aiuto?»

Non pensava di potersi sentire più sola di quella notte di sette anni fa, quando prima una bistecchiera in ghisa, poi un paio di forbici e infine il filo dell’abat-jour non sono riusciti a ucciderla, pur andandoci vicino. È la notte tra il 24 e il 25 giugno 2012 quando la vita di Lidia Vivoli cambia per sempre. A segnarla, però, non è solo il tentativo folle dell’ex compagno di ammazzarla. La sua vita, dopo quella notte, non sarà più la stessa soprattutto per la decisione di denunciare quel tentativo folle, condannandolo in ogni spazio che le viene da quel momento concesso. Un peccato che, non lo sa all’inizio, sconterà ogni giorno della sua vita. La prima cosa che cambia, in maniera quasi vistosa e sfacciata, è il modo che ha la gente di guardarla.

Ha la residenza a Santa Flavia, ma la strada dove abita ricade dentro Bagheria, dove in tanti, troppi le chiedono con insistenza cosa abbia fatto per meritarsi una simile esplosione di violenza. E a domandarglielo sono soprattutto le compaesane, che guardano i lividi sul suo volto quasi giudicandola. «Maltrattata e denigrata», ha raccontato più volte a MeridioNews la stessa Lidia. Quasi fosse lei quella che doveva vergognarsi di qualcosa. Mentre il suo ex è libero, fino a un certo punto, di tornare addirittura a tormentarla, minacciandola con dei messaggi o pedinandola e aggredendola di nuovo.

In un contesto simile, occhiatacce, commenti e incomprensibili condanne morali non fanno che aggiungere un carico enorme alle ferite di cui, da quella notte, porta già i segni. È un clima che finisce per emarginarla e isolarla, mentre le uniche porte che le si aprono sono quelle dei salotti televisivi, che la corteggiano a comando in occasione delle ricorrenze per le quali lei è suo malgrado diventata un simbolo. Può fare finta di niente, scrollarsi tutto di dosso semplicemente voltando le spalle, ben conscia di quello che ha subito e della fortissima donna che l’ha resa. Tuttavia, messe da parte violenze, denunce e appelli per aiutare le altre donne, resta il fatto di dover continuare a vivere, in un modo o nell’altro. Ma come riuscirci senza avere nemmeno la possibilità di lavorare?

Ex hostess della Wind Jet, Lidia sembra quasi essere tenuta a distanza da tutti. Nessuno, almeno in paese, sembra interessato a tenderle una mano. «Ho chiesto aiuto, ho supplicato, mi sono umiliata, inginocchiata in lacrime davanti a politici, presidente di aeroporto, direttori di accademia, direttori di supermercati per avere una chance, un lavoro e nessuno mi ha mai dato una possibilità. Non una raccomandazione, non un lavoro ma solo la possibilità di un colloquio serio. Nulla – racconta oggi Lidia -. Dopo sette anni però quel lavoro io l’ho trovato, e ci sono riuscita da sola, in una compagnia aerea con base a Malpensa, e sono molto grata ai dirigenti di questa compagnia che mi hanno dato questa chance. Ma sono sola, senza i miei bambini, che riesco a vedere poco. Perché non vivo nella loro stessa città, riesco a vederli una volta al mese».

È questo il prezzo da pagare per aver riconquistato, con le unghia e con i denti, una parvenza di emancipazione e indipendenza per poter andare avanti. Una contraddizione in termini, però, se una conquista simile comporta, dall’altro lato, una rinuncia anche più grande. «La realtà è che non frega niente a nessuno. Sia delle donne uccise che di quelle sopravvissute – torna a dire, con molta durezza -. Sono sola». Una parola che ritorna sempre, nei racconti di Lidia. Malgrado si sia in passato rivolta anche a numerose note associazioni perché la accompagnassero nel delicato percorso di denuncia delle violenze subite e di riconquista della sua vita. «Molte di queste servono solo ad accumulare più soldi possibile – spiega con amarezza -. Io non mi faccio rinchiudere in nessuna struttura protetta. Io sono una cittadina onesta e voglio vivere libera. Allora non merito aiuto, evidentemente. Perché se mi faccio rinchiudere le case famiglia ci guadagnano, e solo allora sono pronte a fare qualcosa. Nessuna associazione mi ha mai contattata per dirmi lottiamo insieme, mi invitano agli eventi, ma finisce lì».

Inesistente la possibilità di intraprendere dei percorsi alternativi. «Non esiste nulla. Tra l’altro se, come me, paghi il mutuo è anche peggio. Vuol dire che sono ricca… Nessuno calcola che 15 anni fa lavoravo. Non ho avuto nemmeno un minimo di risarcimento per quello che ho subito. Nemmeno le visite mediche o gli esami gratis, anzi peggio. Ho parlato, ho denunciato anche le ingiustizie e quindi non merito aiuto – ribadisce -. L’omertà e l’ipocrisia sono normali in Italia, a quanto pare. Io lo dico sempre durante le mie interviste e per questo sono abbandonata. Ho tentato e tento tuttora, ogni giorno, di scoperchiare quel vaso di pandora che sta attorno a realtà come questa, a tutti quei fallimenti del sistema troppo spesso oscurati da meriti e successi. Io l’ho sempre fatto. Ma da sola».

Silvia Buffa

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