Processo ladri di arance, l’esame dei due imputati di omicidio «Non abbiamo sparato solo noi. Ho mentito perché minacciato»

I due imputati del processo per il duplice omicidio e il tentato omicidio dei ladri di arance alla Piana di Catania, non sarebbero stati gli unici a sparare la notte tra il 9 e il 10 febbraio del 2020. Almeno stando alla ricostruzione fatta, durante le oltre tre ore di udienza di questa mattina al tribunale di Siracusa, dal 44enne custode del fondo agricolo Giuseppe Sallemi. È lui che, insieme al 73enne Luciano Giammellaro, è accusato di avere ucciso Massimo Casella e il figlio 18enne della sua compagna Agatino Saraniti e di avere ferito gravemente l’unico sopravvissuto Gregorio Signorelli che adesso è un testimone chiave e che oggi era presente in aula. «A uccidere il ragazzino – ha dichiarato Sallemi nel corso del suo esame – è stato il figlio di Giammellaro», anche lui custode di un terreno non distante. A parlare della presenza di questa terza persona (che non è mai stata indagata) nell’ampia scena del crimine era già stato anche il sopravvissuto in un’intervista esclusiva rilasciata a MeridioNews e confermata nell’incidente probatorio

Rispondendo alle domande del pubblico ministero e degli avvocati, Sallemi – che da imputato non è obbligato a dire la verità – ha ricostruito quella notte. Una versione diversa rispetto a quella fornita nel primo interrogatorio e anche a quella emersa dalle intercettazioni. Subito dopo essere stato arrestato, aveva confessato di avere agito da solo e per legittima difesa, davanti a una presunta reazione degli uomini scoperti a rubare. Una versione smontata dai risultati dell’autopsia e che lui ha mantenuto fino al gennaio del 2021, quasi dopo un anno di carcere. «Giammellaro aveva minacciato di uccidere me e i miei figli. Poi in carcere mi ha detto: “Continua a fare quello che stai facendo che, quando esco da qua, ci penso io ai tuoi figli“». Così il 44enne ha spiegato che aveva deciso di prendersi da solo la responsabilità di quanto accaduto perché «avevo paura ma adesso sono stanco: se devo morire, muoio lo stesso. Ho ricevuto minacce sia fuori che dentro il carcere». Tanto che in due anni di detenzione, Sallemi ha cambiato cinque istituti penitenziari. Anche se soltanto in quello di Piazza Armerina, in provincia di Enna, risulta una denuncia formalmente presentata. 

Nella ricostruzione fatta oggi in aula, Sallemi ha chiarato che quella era stata l’unica domenica del mese in cui aveva lavorato. Di solito era il suo giorno libero e in servizio ci sarebbe stato invece Giammellaro che questa mattina, in videocollegamento dal carcere in cui è detenuto, ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere ribandendo di essere innocente. «Da qua stasera non se ne deve andare nessuno», è la frase che gli attribuisce invece Sallemi. Quella sera lui sarebbe stato il primo a raggiungere i tre che erano già fuori dal furgoncino. «Io sono rimasto in macchina e ho chiesto cosa avessero fatto e perché stavano scappando. Loro mi hanno tirato fuori e mi hanno detto che mi avrebbero ammazzato». Secondo quanto dichiarato dall’imputato, mentre Casella e Saraniti lo tenevano fermo, Signorelli lo avrebbe colpito con schiaffi e pugni sulla spalla e sul collo. «Quando hanno sentito arrivare la macchina (di Giammellaro che nel frattempo era già stato informato da Sallemi), mi hanno buttato a terra dicendo: “Ammazziamolo, lasciamo qua e scappiamo”». A quel punto Signorelli si sarebbe diretto verso il furgone, abbassandosi. «Io ho pensato stava prendendo qualcosa per uccidermi». I tre, però, erano disarmati. 

A quel punto, Sallemi avrebbe aperto il cofano, preso il fucile e dopo averlo caricato avrebbe sparato «un colpo in aria. Signorelli si è alzato e mi ha chiesto se fossi autorizzato a sparare. Io gli ho detto che non avevo bisogno di autorizzazioni, ho abbassato il fucile e sparato di nuovo». Nel racconto del custode, a questa scena gli altri due non avrebbe assistito perché erano già scappati, per poi tornare «circa una mezz’oretta o un’oretta dopo». Nel frattempo, in mezzo alle campagne tra Catania e Siracusa, sarebbero arrivati anche i Giammellaro. «Luciano si mette i guanti, si prende il mio fucile e me lo punta in faccia perché mi dice che devo fare quello che dice lui: che da là non se ne doveva andare più nessuno e che loro dovevano morire. Io – aggiunge Sallemi – ho provato a farlo ragionare, ma lui ha detto che avrebbe ammazzato pure me». A un certo punto, Giammellaro avrebbe mandato il figlio a prendere un’altra arma. 

«Io ero andato ad aprire la sbarra per farlo entrare quando ho sentito sparare e poi ho visto Casella già a terra», che nel frattempo, stando a quanto ha ricostruito dall’imputato, sarebbe tornato indietro insieme al 18enne. Entrambi richiamati dai due che li avrebbero invitati a venire fuori che «tanto non vi facciamo niente. Poi Giammellaro ha detto al figlio: “Fai quello che devi fare” e lui si è girato e ha sparato a Saraniti mentre il ragazzo gli diceva “ma perché mi stai ammazzando?”». Subito dopo Sallemi ha raccontato di essere riuscito a scappare a bordo della sua auto e di essersi rifugiato in un appezzamento confinante. «Ero agitato, non sapevo che cosa fare, mi sentivo confuso, ero senza fucile e mi stavo cominciando a sentire male come se mi mancava l’aria». Lì, nelle mattinate, sarebbe stato raggiunto da Giammellato che «ha minacciato di uccidere me, i miei figli e tutta la famiglia». Il 73enne ha deciso di non sottoporsi all’esame e ha solo confermato quanto già detto del suo interrogatorio. «Io non cammino, non ci sento bene, non mi sento bene e non ho nient’altro da dire. Sono innocente e mi metto nelle vostre mani». 

Marta Silvestre

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