Ecco cosa può accadere quando il movimento della “Nouvelle Vague” scocca la sua freccia: un giovane, nato a Johannesburg, laureato in Architettura a Torino, s’innamora dell’arte del documentario e ne fa la sua strada di vita. “Ho avuto l’opportunità di frequentare uno stage diretto dal regista Jean Rouch”: lì scattò la scintilla di Stefano Tealdi, già fondatore – insieme ad altri due amici – della casa di produzione indipendente “Stefilm” di Torino, in cui lavorava anche come produttore e regista. Un fervore suscitato dal “cinema del reale” di Rouch, etnologo e antropologo, che realizzò soprattutto documentari etnografici sull’Africa.
E Tealdi, su questa scia, ha diretto parecchi documentari nel continente africano tra cui “Eritrea, il tempo di un sogno” – in cui ha seguito due giovani eritrei per dieci anni – attuando come la definirebbero i sociologi “una ricerca qualitativa a lungo termine”. D’altronde per riuscire a realizzare un lavoro – che sia a lungo o a breve termine – non si deve saltare nessuno step: dall’ideazione alla ricerca, dallo sviluppo dei contenuti allo sviluppo finanziario.
Così durante l’incontro dal delicato tema “Come produrre documentari in Italia” – tenutosi nella facoltà di Lingue di Catania – il regista torinese, madrelingua inglese, ci ha parlato di gioie e dolori di questo genere audiovisivo e, di riflesso, della sua esperienza di documentarista e della sua casa di produzione, soprattutto in un terreno minato come quello italiano, in cui “‘sta creatura sociale” non gode del rispetto che meriterebbe. Il cuore dell’intervento ci porta alla conoscenza degli standard del mercato della non-fiction.
Non è realizzare un solo film o riuscire a sopravvivere ciò a cui guarda una casa di produzione indipendente: “Vivere negli anni comporta un bilanciamento d’obbligo tra ricerca di finanziamenti e realizzazione di film di qualità”. Non facile. “E perciò non lo si dovrebbe nemmeno sognare di creare un film e dopo cercare dei distributori, perché si rischia di non ricavarne gli utili e fallire”. Per raggiungere la meta occorre il finanziamento anticipato “Se non al cento per cento almeno all’85% che – sommato magari a un 25% di successive vendite – permetterà di guadagnarci” suggerisce il fondatore della “Stefilm”.
E qui scatta un altro elemento condizionante: la ricerca dei finanziatori e dei co-produttori. I costi variano a seconda che una tv decida di acquistare o pre-acquistare un prodotto e a seconda della nazione di riferimento (i tedeschi i più aperti); a seconda dell’istituzione proponente o proposta, a seconda del networking esistente per creare una rete di conoscenze di fiducia atte a finanziare: “Diciamolo pure: è difficile che qualcuno finanzi un film maker e un produttore di cui non sanno nulla” aggiunge Tealdi.
Non poteva mancare, allora, la classica domanda, rivolta dal pubblico: “Ma una casa di produzione o un film maker neofiti come fanno ad ottenere visibilità e finanziamenti magari dall’Unione Europea”? Tealdi risponde con un breve excursus storico: “A fine anni ottanta nacque a livello europeo il programma ‘Media’ – per cercare di combattere il cinema americano – all’interno del quale io frequentai “Eave” (European Audiovisual Entrepreneurs) per una formazione più consapevole di produttori-imprenditori. Nel ‘94 la ‘Stefilm’ presentò una progetto alla Comunità Europea: venne accettato e finanziato al 50%, ma non riuscimmo a realizzarlo. Fa parte del gioco, capita, e si va avanti lo stesso”. La società restituì il finanziamento e in seguito presentarono altri progetti che andarono in porto.
Ora è un po’ diverso. Come si lavora? Tealdi spiega come reagire prontamente e in modo mirato ai rapidi mutamenti che si susseguono nel campo audiovisivo, e alla richiesta di nuovi requisiti, per godere così dei finanziamenti europei. Intanto c’è da dire che il documentario di creazione sta in mezzo tra quello su commissione e quello di reportage. Ciò comporta di tener conto di un processo produttivo con tempi differenti di realizzazione “almeno un anno e mezzo, mentre quello su comanda richiede tempi molto più brevi”, e una intelaiatura del film diversa in base al pubblico a cui lo si vorrebbe indirizzare. Poi, l’Unione Europea ha messo dei filtri: una ‘casa emergente’ deve dimostrare di aver fatto un documentario simile a quello che va a proporre oppure dimostrare di aver collaborato con altre produzioni o di aver sancito un’alleanza con una già consolidata. Se il progetto è ritenuto valido dalle “commission editor” ecco subito in tasca il 50% di finanziamento (da 10mila a 60mila euro) che se fosse di 10mila ne prevede uno sviluppo di 20mila, non di 2-3mila euro. Intendiamoci! Una regola del presente è che il finanziamento europeo è a fondo perduto, cioè se il documentario non viene realizzato l’iniziale fondo non va restituito.
Il consiglio è di frequentare i campus europei “perché forniscono i contatti e il know-how necessari per lavorare in campo internazionale”. In questo modo ai film maker europei viene data la possibilità di imboccare delle scappatoie come partecipare – attraverso selezione – a progetti tipo ‘EsoDoc’, ‘Discovery Campus’, ‘Development Campus’… che hanno la finalità di far emergere il proprio operato, a chi vuole mostrare e a chi vuole dimostrare…
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