‘Potevo anche finire in un carcere libico’

Fare ipotesi. Prendere informazioni. Lasciare al caso meno cose possibili. Ridurre al minimo i rischi. Fabbricare i costumi di scena e studiare il personaggio da interpretare. Ci sono state tutte queste cose prima del tuffo in mare che ha trasformato Fabrizio Gatti in Bilal Ibrahim el Habib, e gli ha permesso di vedere e raccontare come vivono le migliaia di persone che ogni anno passano dal Centro di permanenza temporanea di Lampedusa.

Un lavoro di preparazione che l’inviato dell’Espresso ha ricostruito per il Ducato online: “Quando imposti un lavoro di questo genere devi essere molto razionale e non lasciare spazio alla fortuna, altrimenti rischi di farti male. L’aspetto romantico, se lo vogliamo chiamare così, esiste solo nel momento in cui decidi di fare giornalismo in questo modo”.
Il modo era quello che i manuali di giornalismo chiamano inside story. “In antropologia la chiamano osservazione partecipata – racconta Gatti – ed è anche il metodo migliore per conoscere i fatti ma anche le emozioni delle persone quando si trovano in circostanze così drammatiche. D’altro canto non c’era nessun’altra possibilità di documentare una situazione che poi si è rivelata gravissima. La scelta del metodo è stata imposta dalle autorità che impediscono la libera informazione. Che non vuol dire solo poter pubblicare le informazioni, ma soprattutto avere diritto a cercarle”.

Una volta deciso di infiltrarsi, il problema è stato come fare ad arrivare a Lampedusa da clandestino. “Nel 2003 seguivo le partenze dalla Tunisia e avevo pensato di imbarcarmi da lì, ma il motore della barca si era rotto subito. Il rischio comunque era troppo alto, bisognava trovare un altro modo per arrivare sull’isola”. E qui entra in scena Steve Mc Queen, che nel film “Papillon” si butta in mare per scappare dall’isola della Cayenna. Ma era plausibile che un clandestino arrivasse da solo a nuoto sulle coste di Lampedusa? “Mi avevano detto che qualche caso del genere c’era stato. Del resto è quello che è successo poco tempo fa con un gruppo di cinesi, lasciati nel canale di Sicilia aggrappati a dei copertoni di camion. Sono morti in nove.”

Fabrizio Gatti, profugo del Kurdistan.

Bilal, l’alter ego di Gatti, è un curdo. E anche la scelta di questa nazionalità non è stata né casuale, né dettata solo dal fatto che un italiano chiaro di pelle non poteva certo fingersi nigeriano. “Avevo vari problemi da risolvere: non potevo farmi passare per albanese o romeno come le altre volte (kosovaro alla frontiera con la Svizzera e romeno nel Cpt di via Corelli a Milano n.d.r.), perché la gente che arriva da quei paesi non transita da Lampedusa. Poi dovevo cercare in ogni modo di non essere espulso dall’Italia: se mi avessero rimandato in Libia in quelle condizioni avrei rischiato una condanna a molti anni di carcere per spionaggio. La Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, non riconosce diritti agli immigrati e tantomeno ammette che i giornalisti si muovano sul suo territorio per cercare informazioni. Avevo saputo che le persone che arrivano da zone di guerra con cui l’Italia non ha accordi di riammissione di solito non vengono espulse e vista la situazione irachena e quella del Kurdistan in particolare, speravo in questo per non essere mandato fuori dal paese”.

Restava il problema della lingua: come risultare un curdo credibile durante gli interrogatori? “Un ragazzo marocchino che era passato da Lampedusa mi aveva raccontato di essersi finto algerino per non essere rimpatriato – visto che con l’Algeria non ci sono accordi di riammissione – e di aver parlato solo in francese mentre era nel Cpt, per evitare che l’interprete arabo capisse dall’accento che era marocchino. Sfruttando questa idea anch’io che parlo un po’ di arabo ma con un accento tremendo, sono riuscito a non farmi scoprire parlando quasi solamente in inglese”.

Il rischio della galera libica.

“Sia il direttore che i due vicedirettori dell’Espresso – continua Gatti – erano d’accordo sull’importanza di portare avanti un lavoro del genere e anche sul modo di procedere, che era l’unico possibile: se mi fossi presentato come Fabrizio Gatti giornalista dell’Espresso mai sarei potuto entrare nel centro di Lampedusa. L’unica cosa che li preoccupava erano i rischi per la mia incolumità”.
Ma quali erano questi rischi? “Spesso gli immigrati, in violazione di ogni sensibilità e del diritto, vengono imbarcati sui voli per la Libia senza essere avvisati della loro destinazione, così come succede anche per i trasferimenti negli altri Cpt, come Crotone o Bari. Se mi avessero messo su un aereo io avrei dovuto interrompere il lavoro, dichiarando chi ero ancora prima di imbarcarmi per non rischiare di finire in Libia; così facendo però avrei perso la possibilità di completare il lavoro, magari visitando un altro Cpt. Per risolvere il problema avevo pensato di tenere sotto controllo la posizione del sole per cercare di capire quale fosse la rotta dell’aereo. Nella peggiore delle ipotesi potevo sempre consegnarmi al comandante che, secondo il diritto internazionale, deve dare protezione al passeggero che glielo chieda”.

Come infiltrarsi.

Arrivati a questo punto non restava che procurarsi i vestiti per impersonare Bilal – “il giubbotto di salvataggio l’ho comprato qui in Italia, l’ho sporcato per farlo sembrare usato e poi ci ho scritto su, in arabo, La felicità 3” – e partire. Un aereo per Palermo, in macchina fino ad Agrigento e l’arrivo in nave a Lampedusa, poco prima del tramonto di Venerdì 23 settembre. Neanche la data dell’arrivo in Sicilia è stata scelta in modo casuale. “Già da tre anni la fine dell’estate coincide con un picco degli arrivi di immigrati, perché il mare in quel periodo è molto calmo. Le mie informazioni dall’Africa mi confermavano che anche quest’anno sarebbe stato così, quindi avevo deciso di provare ad entrare a Lampedusa all’inizio di Settembre. Ho solo ritardato di un paio di settimane il mio arrivo perché c’è stata la visita dei deputati della Commissione europea e io volevo vedere il centro in una situazione di quotidianità invece che ripulito e svuotato. La scelta del venerdì invece era dettata dal timore di essere scoperto con il controllo delle impronte digitali – come infatti è successo – e speravo che nel fine settimana i turni di lavoro fossero un po’ meno serrati. In realtà già il sabato sera avevano scoperto che le mie impronte erano uguali a quelle di Roman Ladu, la falsa identità con cui sono entrato nel Cpt di via Corelli a Milano nel 2001. Quello che mi ha sorpreso è il fatto che a questa identità non abbiano associato il mio vero nome e cognome”.

Gli scatti dei complici inconsapevoli.

Ma le belle foto di Bilal dietro il filo spinato che circonda il Cpt e tra due carabinieri al porto di Lampedusa chi le ha fatte?
“Due fotografi diversi, due freelance che non sapevano assolutamente che io fossi lì dentro, avevano solo avuto l’incarico di fare delle foto agli immigrati che stavano a Lampedusa. Toccava a me cercare di farmi fotografare. In tutte e due le circostanze mi sono chiesto: se fossi dall’altra parte che foto vorresti scattare? Così, ad esempio, durante il l’imbarco per Agrigento ho cercato di essere l’ultimo della fila per ritrovarmi con i carabinieri alle spalle e dare l’idea del trasferimento coatto”. Una circostanza che anche il fotografo Lillo Rizzo, autore inconsapevole dello scoop dell’anno, conferma. “Ero al porto di Lampedusa e ho visto che questo tizio con la barba mi guardava, ma non è una cosa infrequente in questi casi: molti immigrati si fanno fotografare volentieri, forse perchè così i parenti vedendo gli scatti vengono a sapere che sono vivi. L’inquadratura coi carabinieri era buona e così ho scattato. Le mie foto sono state comprate in esclusiva dall’Espresso, ma ho realizzato di aver partecipato allo scoop di Gatti solo quando ho visto uno dei miei scatti in copertina”.

E adesso che succede?

Il lavoro fatto nel Cpt di via Corelli a Milano nel 2001 è già costato a Fabrizio Gatti una condanna – sospesa – a venti giorni di carcere. Succederà anche questa volta? “Sono stato convocato in procura ad Agrigento ma solo come testimone per inchieste che riguardano il comportamento di altre persone in questa storia. Ho saputo di essere stato iscritto sul registro degli indagati, ma non ho ancora avuto comunicazioni di alcuna accusa a mio carico”.

Laura Venuti

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