«Giuseppe Fava non era un eroe. È la definizione più sbagliata che si potrebbe dare. La giustificazione morale di chi non pensa di fare le cose che ha fatto lui». Pippo Fava uomo, padre, drammaturgo, pittore, giornalista. Ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio del 1984. Senza uno solo di questi elementi, la sua figura risulterebbe alterata secondo la figlia Elena. Che spera di vederli tutti riassunti nel cortometraggio La ricotta sul caffè: «Titolo provvisorio, che ho già chiesto di cambiare», spiega. Con la regia di Sebastiano Rizzo e la sceneggiatura di Camilla Cuparo - entrambi non siciliani -, 12 minuti per raccontare la vicenda umana del giornalista, al di là del suo ruolo pubblico. Le riprese inizieranno tra pochi giorni a Giovinazzo e Molfetta, in Puglia, sede della casa di produzione Draka. «Lì verranno ricostruiti gran parte degli interni secondo i miei racconti - spiega Elena Fava - Come lo studio di mio padre». Suo sarà anche il punto di vista che accompagnerà gli spettatori durante il corto. «Ci sarò sempre io, da piccola, da ragazza e da adulta - racconta - Una situazione che mi ha provocato non poco disagio». Da sola a rappresentare anche i ricordi del resto della famiglia «di un uomo allegro, che amava la vita». Come comunque fa da anni, con la fondazione che porta il nome di Giuseppe Fava.
«Mi hanno cercata loro, rintracciandomi proprio attraverso la fondazione - racconta - E il progetto mi è subito piaciuto molto». Ai primi contatti con la sceneggiatrice, sono seguiti quelli con il regista e l’attrice che interpreterà il suo ruolo: Barbara Tabita, «che mi è parsa una persona intelligente e con tanta voglia di capire come sono fatta io». A rappresentare il volto di Giuseppe Fava sarà invece l’attore di fiction e teatro Luca Ward. Con quanti volessero raccontare la sua storia, Elena Fava non si è mai tirata indietro. Ma ad alcune condizioni. «Come famiglia, abbiamo sempre cercato di difendere mio padre – racconta - La nostra storia non si esaurisce il 5 gennaio (giorno della morte di Fava, ndr). A distanza di 30 anni, lui rappresenta ancora un uomo scomodo». In mezzo ci sono stati un lungo processo - concluso solo nel 2003 in Cassazione - e «la costante diffamazione in città». Impossibile non tenerne conto, anche se l’obiettivo è quello di portare in video un Giuseppe Fava intimo, nel suo rapporto con la figlia. Perché, nelle parole di Elena, la piccola di casa, pubblico e privato coincidono.
Lei, come il fratello Claudio - ex europarlamentare, adesso candidato a governatore regionale -, nelle manifestazioni pubbliche non ha mai detto «mio padre». Ma sempre «Giuseppe Fava». L’insegnamento che ha lasciato ai suoi figli - e che Elena spera venga restituito nel cortometraggio - è lo stesso che ha lasciato ai suoi concittadini. «Si è sempre sentito un uomo libero e ci ha insegnato a vivere d’accordo con la nostra coscienza, con il coraggio delle nostre opinioni - racconta - Una scelta di vita». Da «lupo solitario», come disse lui stesso in un’intervista a Enzo Biagi: «Questa vita può essere anche affascinante, orgogliosamente soli fino all’ultimo, ma 60 milioni di italiani non potranno farlo». «Una frase che ho capito solo dopo la sua morte - dice Elena - Perché per me era normale che tutti fossero come mio padre, che vivessero secondo gli insegnamenti che ci ha trasmesso. Poi invece ho capito che si tratta di una scelta spesso non condivisa, ma che noi come famiglia abbiamo fatto nostra».
Dal racconto dell’uomo all’appiattimento del simbolo, il passo può essere brevissimo. Ed è il rischio che si correva con il titolo inizialmente diffuso: La ricotta sul caffè. Che Elena Fava ha già chiesto di modificare. «Faceva un po’ campagnolo», scherza. E anche troppo spettacolare, «perché non stiamo facendo una fiction». Due sono infatti i riferimenti. «Mio padre era un grande amante del caffè. Me lo chiedeva sempre: Me lo fai il caffè? - racconta ridendo - La tazzina accanto non gli mancava mai, che stesse scrivendo o dipingendo». Un ricordo allegro, accostato a un’immagine inquietante: la ricotta. La stessa che venne fatta recapitare a casa Fava pochi giorni prima della morte del giornalista, insieme a una cassa di bottiglie di champagne. Tradotto dal linguaggio mafioso: «Ti ridurremo in poltiglia e brinderemo sulla tua bara». «Ma io non ho mai capito se mio padre avesse realizzato che si trattava di un avvertimento», sospira Elena. Adesso, in attesa dell’uscita del cortometraggio, le resta solo una domanda. Che continua a ripetere a sceneggiatrice e regista: «Chi non ha mai saputo chi fosse Giuseppe Fava, non un uomo qualunque, al di là della vita in famiglia, non uno scrittore qualunque come Hemingway o Sciascia ma uno ammazzato dalla mafia, dopo che vede il corto lo capisce?».
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