Milioni di euro di incassi, ma anche una buona dose di polemiche. Il film In guerra per amore di Pierferdinando Diliberto, meglio conosciuto come Pif, ha ottenuto l’approvazione del grande pubblico, ma anche le critiche di alcuni storici, secondo i quali il secondo lungometraggio del registra palermitano porterebbe sul grande schermo una ricostruzione poco veritiera dello sbarco alleato in Sicilia. Specialmente sul presunto apporto fornito dalla mafia alla liberazione del nazifascismo. Dopo la querelle delle scorse settimane tra lo storico Rosario Mangiameli e lo stesso Pif, a tornare sulla vicenda è la ricercatrice dell’Università di Palermo Manoela Patti, intervistata da MeridioNews.
«Pif non si è inventato nulla, ma ha riproposto una versione figlia di una lettura parziale degli eventi, che oggi, alla luce dei documenti che abbiamo a disposizione, non può essere ritenuta aderente alla realtà – commenta Patti -. Nel film, per esempio, si fa riferimento allo sbarco come a un’esperienza prettamente americana, mentre è necessario ricordare che in Sicilia arrivarono i contingenti anche inglesi, che percorsero la Sicilia in maniera differente rispetto agli statunitensi».
Tra i riferimenti su cui il regista ha puntato ci sono i lavori di Michele Pantaleone. «Si tratta di una versione degli eventi più volte ripresa dalla sinistra – continua – ma che è viziata da una propensione a leggere i fatti bellici con una prospettiva quasi da guerra fredda. Invece ciò da cui non si può prescindere è proprio il contesto in cui si sono svolti quei fatti, ovvero la guerra». Il conflitto mondiale, per la storica, avrebbe determinato condizioni tali per cui lo sbarco anglo-americano venne accolto con favore, per motivi che poco hanno a che vedere con la mafia. «Nel ’43 la gente viveva sotto i bombardamenti e doveva fare i conti con la fame – spiega Patti – e la potenza di fuoco messa in campo dagli Alleati fu tale da convincere larga parte dei siciliani ad accettare l’invasione. Anche perché sin da subito venne trasmesso il messaggio per cui tutte le responsabilità erano da addebitare a Mussolini, con la popolazione a essere principale vittima».
Detto questo, è anche vero che i mafiosi non restarono con le mani in mano. «Nessuno nega che non si mossero dopo lo sbarco – specifica la storica – e che singoli mafiosi si offrirono come garanti dell’equilibrio sociale nei vari paesi». Offerta che in molti casi portò gli esponenti delle famiglie malavitose a diventare sindaci. «È il caso di Calogero Vizzini a Villalba, ma ce ne furono anche altri – ammette Patti -. Questo però non vuol dire che gli Alleati cercarono coscientemente una spalla nella mafia. Anzi, ci sono testimonianze in cui gli americani, scoperto il legame con la mafia, annunciavano l’intenzione di deporre i neosindaci». Tutti riferimenti che sarebbero poco chiari nell’opera di Pif. Così come la presunta pianificazione di un’alleanza con Cosa nostra già prima dello sbarco. «Il principale collegamento è quello con Lucky Luciano, che avrebbe dato una grossa mano agli americani in cambio di uno sconto di pena. Ma qui – chiarisce Patti – l’errore sta nel fatto di vedere la moneta di scambio in una poco probabile influenza di Luciano in Sicilia. Parliamo di un soggetto che lasciò l’Isola da bambino e che divenne delinquente negli Stati Uniti».
Ciò non toglie che il governo americano cercò di ottenere quante più informazioni possibili sulla Sicilia. «Era fondamentale, perché si trattava del primo ingresso in Europa da parte degli Alleati. È per questo – va avanti Patti – che si scelse di mandare tanti ufficiali di origini italo-americane, persone che potessero avere qualche legame con la popolazione siciliana». A dimostrare, infine, la non vicinanza del governo americano con la mafia sarebbero le numerose azioni compiute a sbarco avvenuto. «Dal mese di settembre fu chiesto ai carabinieri di consegnare le liste dei mafiosi. A dimostrazione di come – conclude la storica – affermare che gli americani resuscitarono la mafia è un falso».
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