Pietraperzia, capomafia dietro l’intimidazione al sindaco Magistrati: «Si lamentò perché aveva fatto pochi danni»

C’è chi lo chiama dottore, chi lo conosce come «il dentista» ma in realtà – nonostante risulti un impiego in uno studio specialistico privato – sarebbe soltanto un odontotecnico abusivo. Su Vincenzo Monachino, uno dei 21 arrestati dell’inchiesta Kaulonia della Dda di Caltanissetta, tuttavia pendono accuse ben più pesanti: per i magistrati guidati dal procuratore capo Amedeo Bertone, il 51enne continuerebbe a essere il capo della famiglia mafiosa di Pietraperzia. Un potere che Vincenzo Monachino, in questi anni, avrebbe continuato a dividere con il fratello Giovanni, di quattro anni più grande e di natali francesi. A Metz, precisamente.

Nelle quasi seicento pagine di ordinanza firmata dal gip David Salvucci, vengono ricostruite diverse vicende criminali che spaziano dal passato – con un coinvolgimento del più grande dei Monachino negli incontri che precedettero le azioni stragiste di Cosa nostra degli anni Novanta – a fatti più recenti. Le accuse che i magistrati della Direzione distrettuale antimafia rivolgono ai due fratelli – già più volte condannati per mafia – sono diverse, e comprendono l’avere ordinato l’omicidio di Filippo Marchì, 50enne ucciso a Barrafranca nell’estate 2017, in passato autista dello storico boss Salvatore Saitta. A finire sotto la lente degli investigatori è però anche un’altra vicenda che ha avuto una forte eco mediatica, nonostante non sia legata a fatti di sangue: il danneggiamento, tramite incendio, di una casa di campagna di proprietà del suocero del sindaco di Pietraperzia Antonio Bevilacqua.

A essere accusati di quella che ha tutti i tratti dell’intimidazione, seppure a oggi non sia stato ricostruito il movente, sono Vincenzo Monachino e Salvatore Di Calogero. Quest’ultimo è considerato uno degli uomini a disposizione dei Monachino. 

Il 27 febbraio 2018, il suocero del primo cittadino si accorge che nell’abitazione di contrada Magazzinazzo qualcosa non va. L’impressione è che si sia trattato di un tentativo di incendio, più che di un rogo andato a buon fine. A rimarcare la cattiva riuscita è lo stesso gip. «Gli unici danni arrecati all’immobile – scrive – sono consistiti in un annerimento delle pareti interne dello stabile, neppure è andata in fiamme la tanica da venti litri contenente residui della benzina agricola utilizzata, con ogni probabilità, per appiccare il fuoco». La scarsa destrezza sarebbe stata fatta notare dallo stesso Monachino che, nella ricostruzione degli inquirenti, affida a Di Calogero il compito di incaricare chi concretamente avrebbe dovuto appiccare il fuoco. A tirare in ballo il dentista è proprio Di Calogero, mentre conversa con il cugino Vincenzo, anche lui arrestato. L’uomo si lamenta dei favori che i Monachino reclamerebbero. «Ne vogliono fatto uno dietro l’altro. Uno che dovevano bruciare la casa», dice Di Calogero, citando il cognome del suocero di Bevilacqua. Lo stesso poi aggiunge: «Mi viene a dire: “Quella in quel punto non è stata fatta a dovere”». Un giudizio che sarebbe stato confermato dalle immagini pubblicate dal proprietario dell’immobile su Facebook.

In mano agli inquirenti c’è però anche dell’altro. A partire da quello che, a posteriori, è apparso un sopralluogo. È il 24 febbraio e Vincenzo Monachino e Salvatore Di Calogero vengono fotografati nei pressi di un bar. «Dalla visione delle immagini l’auto di Monachino precedeva quella di Di Calogero, come se il primo avesse detto di seguirlo», scrivono gli investigatori. Stando alla ricostruzione, pochi minuti dopo Monachino si ferma in una strada vicino alla statale 191 e sale su un’altra vettura. Per gli inquirenti, al volante ci sarebbe stato Di Calogero. E i due si trovano nelle vicinanze della casa che tre giorni dopo avrebbe preso fuoco.

All’indomani dell’incendio, quando già il proprietario della casa ha sporto denuncia e la notizia si è diffusa, Monachino viene intercettato mentre parla con un uomo all’interno di un’altra automobile. Il 51enne critica quello spiegamento di forze dell’ordine, nel frattempo giunte sul posto: per lui, se l’abitazione fosse stata di qualcuno non legato a un politico, l’attenzione sarebbe stata minore. «Vorrei vedere se ti bruciassero la casa a te… Ci sarebbe tutto questo bordello?», domanda. La frase è buttata lì, con un’apparente mancanza di coinvolgimento. Un distacco che però, sottolineano i magistrati, non intacca «il grave quadro indiziario». 

Simone Olivelli

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