Piera Detassis: «L’intervista? Un innamoramento»

«La mia non era una famiglia di cultura, tanto meno di sapere cinematografico, ma di sicuro aveva un focolare in cui veniva apprezzata l’arte». Piera Detassis esordisce così, raccontando le sue umili origini, in un incontro al “TaoFilmFest” moderato da Lorena Bianchetti. Il padre, imbianchino, dipingeva e scriveva racconti, e quando poteva la portava al cinema, «ricordo ancora il mio primo film: Gli argonauti».

Dopo la laurea in Italia, con una tesi sull’estetica cinematografica del filosofo Galvano della Volpe – che introduceva l’analisi strutturale (non ancora la cosiddetta semiotica) nello studio e nell’analisi dei film, che fino ad allora venivano analizzati solo nel contenuto e non nel testo cinematografico – Detassis vince una borsa di studio che la fa volare a Parigi. Là per racimolare qualche soldo inizia a fare la baby sitter. La mamma della bambina da accudire lavora nel mondo del cinema e, dovendo partecipare ai festival di Cannes e Venezia, impone alla baby sitter di andare sempre in giro con loro. Riusciamo certo a figurarci il “dispiacere” della Detassis…

 

Viaggiare, conoscere il mondo, abbandonando il mito del focolare: ecco il sogno che finalmente si realizzava. Perché lei si rispecchiava di più nelle ‘dark lady’ degli anni ‘40, nelle ‘bond girl’ che «preferivano rompere gli schemi», senza però arrivare a sfociare nel criminale. «La passione e la determinazione portano lontano, da nessuna parte va  invece chi soffre di “piagnisteo-da-invidia-per-probabili-raccomandati” e non sfida il mondo».

 

Durante l’incontro dispensa consigli (per chi volesse intraprendere questa strada) su come «fare gruppo e lavorare coi colleghi, studiare il cinema e comunicare con gli intervistati» con i quali si deve instaurare un certo feeling perché ‹‹un’intervista è una forma di seduzione, un innamoramento ogni volta diverso: guardarsi dritti negli occhi, saper toccare le corde giuste come se l’altro lo si conoscesse da sempre, rispettare i silenzi e le perplessità altrui››.

 

Un po’ come un possessore di figurine Panini, con i suoi «ce l’ho, ce l’ho e ce l’ho», elenca i personaggi importanti che ha intervistato. Ma la persona che le è piaciuta di più in assoluto e che l’ha messa a proprio agio è stato Roman Polanski, «di statura era un piccoletto ma con una forza comunicativa gigantesca». Invece la paura di dover intervistare Woody Allen l’ha mandata k.o. per l’intero pomeriggio precedente all’incontro. «La cosa buffa è che la paura ha continuato ad esistere, perché subito dopo la prima domanda, nella stanza d’albergo dove mi trovavo con lui, è scattato l’allarme antincendio. Allen col suo fare ironico si rivolse alla segretaria dicendole ”per caso hai lasciato le uova sul fuoco?”, io scoppiai a ridere dopodiché di corsa tutti fuori per le scale d’emergenza. A quel punto la notizia c’era e se ci fossimo salvati, come per fortuna è stato, l’intervista era fatta, anche perché penso si diventi quasi parenti quando si scappa insieme condividendo la paura».

 

Discepola dello storiografo Giampiero Brunetta, al dilemma che più volte le viene sottoposto, sul ruolo parziale o imparziale del critico cinematografico, risponde «io trovo che il critico debba essere parziale, perché il lettore cerca in lui il suo punto di vista. Penso, però, che non si debbano dare chiavi di lettura né cercare di educare, ma solo dare spunti: questa a mio avviso è la mission del giornalismo critico, ovviamente insieme a quella di farsi leggere (quindi ricerco attacco e chiusura vincenti). Dico no alla semiotica e ai linguaggi difficili, e cerco invece in modo semplice e diretto, se il film che ho seguito mi è piaciuto, di rendere con la scrittura lo stile che ha usato il regista e di restituire la storia al suo contesto. Lo so che tutti pretendono di avere proprie idee sul cinema solo perché le immagini sembrano avere un linguaggio più semplice da interpretare rispetto ad un libro o ad un’opera lirica, ma il cinema in realtà prevede uno studio con uno sguardo assai analitico, di cui poi gli altri possono o no tenerne conto».

 

Se da una parte consiglia, per iniziare a sviluppare un proprio senso critico, di vedere film classici come “I pugni in tasca” di Bellocchio o “Prima della rivoluzione” di Bertolucci o “La fiamma del peccato” di Billy Wilder (noir americano per eccellenza); dall’altra parte afferma intristita che «ultimamente in Italia a parte dei lampi di genio come per ‘Il Divo’ o ‘Gomorra’ tutto tace, perché non c’è una grande industria come all’estero». Sottolineando, infine, la crisi mondiale della carta stampata, soprattutto quella italiana, che «non favorisce concreti spunti di riflessione».

Stefania Oliveri

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