Pd, venti di scissione: «Non riconosciamo Faraone» Convivenza necessaria fino alle primarie nazionali

Per adesso in Sicilia c’è un Pd uno e un Pd due. Quale sia quello ortodosso e quale l’eretico non è facile dirlo. Anzi, ciascuno rivendica legittimità e si erge a difensore delle regole. Ma nella sostanza siamo già oltre le correnti. L’incoronazione, nella notte, di Davide Faraone a segretario del Partito democratico nell’Isola ha trasformato in una voragine la spaccatura già presente da tempo tra l’anima renziana e quella zingarettiana che stamattina si è riunita a Catania. «Non riconosciamo Faraone segretario», taglia corto quella che fino a pochi giorni fa è stata la sua sfidante alla segreteria, Teresa Piccione, poi ritiratasi contestando la violazione delle regole (lo slittamento dei termini per presentare le liste) a partita in corso. E anche nel voltare le spalle alla decisione della commissione regionale si tirano in ballo norme e statuto. «Già modificare le regole con i candidati in campo desta qualche sospetto – attacca Enzo Napoli, segretario uscente del partito a Catania – ma visto che lo statuto non dice nulla su una situazione come quella che si è venuta a creare, cioè con un solo candidato, la commissione non può certo ergersi a legislatore e nominare il segretario».

Il fronte siciliano che si riconosce nella candidatura nazionale di Nicola Zingaretti attribuisce alla controparte le cause della rottura definitiva. «Un atteggiamento dirompente, di chi vuole tirare la corda per provocare uno strappo, che comincia in Sicilia e non si sa dove arriva –  dice Napoli – Anche i toni usati contro Teresa Piccione appartengono a chi non si preoccupa di stare insieme», continua facendo probabile riferimento agli ultimi affondi di Antonio Rubino, portavoce dei Partigiani Dem nati antirenziani e poi rientrati sotto l’ala faraoniana. «Faraone è segretario di se stesso e del suo gruppo», continua Piccione sciorinando gli esigui numeri che hanno portato alla nomina del braccio destro di Matteo Renzi: «In commissione erano in sette, Faraone lo hanno votato in quattro, un insulto a tutti gli iscritti del Pd che, annullando i congressi, non sono stati coinvolti».

La scelta del commissione, in effetti, lascia perplessi molti spettatori più o meno interessati alle dinamiche di casa dem. Nelle tradizionali competizioni elettorali, infatti, se uno dei due contendenti si ritira, gli elettori sono comunque chiamati alle urne. Le amministrative, però, hanno una platea di elettori ben definita e in quei casi, se un candidato si ritira, le elezioni hanno luogo comunque, ma per essere valide è necessario raggiungere il quorum del 50 per cento. La stessa dinamica non avviene alle primarie del Pd, che al contrario non hanno una platea definita, essendo aperte non soltanto ai tesserati, ma anche alla società civile. Il nodo, dunque, in questo caso è più di natura politica, perché sono in molti a sostenere che la commissione regionale per il congresso non avesse il potere di proclamare il senatore renziano segretario del Partito. Cavilli, formalità burocratiche, che in questo caso diventano però sostanziali. E rispetto ai quali, verosimilmente, a dirimere la contesa sarà un soggetto terzo rispetto al partito. Probabilmente in un’aula di Tribunale. «Vedremo, non so ancora se continueremo sulla strada giudiziaria», frena Piccione. 

E adesso a livello politico che succede? La scissione già nei fatti viene allontanata a parole, «non è nei nostri programmi», precisa Piccione. Forse è solo posticipata, in attesa di capire quale sarà l’esito della contesa nazionale, che culminerà nelle primarie di marzo. «A inizio 2019 si capirà cosa sarà diventato il Pd», sottolinea Concetta Raia, ex deputata regionale e riferimento della Cgil catanese. Per gli zingarettiani lo scenario da evitare vedrebbe la vittoria di Maurizio Martina. «Ma – precisa qualcuno più ottimista – finora Martina non ha espresso nessun sostegno a Faraone». Insomma, se i renziani avessero espresso un loro candidato puro, come Marco Minniti, le cose sarebbero potute andare peggio.

Il futuro del Pd siciliano inciderà naturalmente anche sull’approccio del partito alla giunta regionale di Nello Musumeci. E se il deputato Anthony Barbagallo rinvia al dopo congresso nazionale qualunque discorso su eventuali modifiche del gruppo politico Pd all’Ars, Raia mette da parte la diplomazia. «Non ci sfuggono le convergenze tra pezzi del Pd e il centrodestra a Palermo – dice -. Ci sono tanti soggetti politici che non hanno più una casa, penso a Gianfranco Micciché e ai lombardiani, e che pensano di fare un percorso diverso». 

Intanto nei prossimi giorni si tenterà la strada della mobilitazione. «Noi andremo avanti con la nostra azione politica – sottolinea Piccione – chiamo a raccolta le forze riformiste, non tutte le forze che si oppongono al governo nazionale. Quello è un brodo primordiale che non ci appartiene». Previste assemblee domenica a Palermo e a Catania. Per il capoluogo etneo ora e luogo sono già decisi: alle 10 all’Hotel Plaza. Mercoledì prossimo toccherà a Messina. «Zingaretti farebbe bene a farsi vedere», dice Angelo Villari a bassa voce. Ma al momento dovrebbe restare solo un auspicio.

Salvo Catalano

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