Renziano sì, ma non troppo. È questa la quadra che le correnti in casa Pd avrebbero trovato attorno al profilo del prossimo segretario regionale del partito. Una decisione che, certo, non può che stare stretta a Luca Sammartino, disposto a fare un passo di lato soltanto a fronte del nome di Davide Faraone, secondo la logica dell’ubi maior. Ma il nome di Faraone – alla vigilia di un congresso nazionale che, stando così le cose, potrebbe vedere contrapposti Nicola Zingaretti, un candidato espressione di Matteo Renzi e uno dell’area che fa capo all’uscente Maurizio Martina – sarebbe scomodo e ingombrante per troppi big in casa dem.
Dunque il profilo c’è, ma manca il nome. I due maggiormente quotati, a questo punto, restano Gandolfo Librizzi e Giuseppe Bruno. Il primo, già a capo del gabinetto di Alessandro Baccei all’Economia nel governo Crocetta, attuale presidente del Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo e una passione in comune con Faraone per lo scrittore Giuseppe Antonio Borgese. L’altro, presidente uscente del Pd siciliano, già assessore regionale, sempre nella giunta guidata dall’ex sindaco di Gela. Una guerra fratricida in casa Faraone difficile da sanare. Per la quale sembra che il senatore dem abbia chiesto una proroga di 24-48 ore al termine di presentazione delle candidature. Che a questo punto potrebbe slittare a martedì 20, anche se la conferma arriverà soltanto oggi.
Quel che in queste ore appare evidente è che il rischio delle primarie sembra definitivamente scongiurato. Anche perché, a bocce ferme, in molti ammettono che non ci sarebbero stati i soldi per portare i gazebo in piazza. Un’ammissione che, seppur arrivi da più fronti, viene smentita a taccuino chiuso dagli aficionados del partito, secondo il principio per cui «le primarie si pagano da sole». Vero. Ma quando il Pd portava a casa il 40 per cento dei voti alle europee. Non certo davanti a un partito che alle prossime elezioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles rischia di non arrivare in doppia cifra.
Le dimissioni del tesoriere Lillo Speziale avevano già indicato la strada del dissesto (anche) finanziario di quel che resta del partito nell’Isola. Certo, dopo la burrascosa direzione regionale, in cui sono emersi con forza i disagi economici di un partito al collasso, in molti tra i rappresentanti istituzionali in casa dem si sono messi in regola. Ma il tema, come evidenziato dallo stesso Speziale, in quel caso non era economico, ma politico. Tra le ragioni con cui veniva motivato il mancato versamento delle quote, infatti, c’era lo scontento attorno al ruolo ancora ricoperto dal segretario uscente Fausto Raciti, dopo una lunga stagione di lotte intestine che hanno lacerato il Pd in Sicilia: dallo spartiacque del referendum costituzionale nel dicembre 2016 fino alla disfatta delle Regionali nel 2017 e al tracollo delle Politiche di inizio 2018. Così chi non si sentiva più rappresentato dalla guida di Raciti non pagava. Mandando in bancarotta un partito che prima non ha più potuto pagare gli stipendi ai dipendenti e poi di fatto ha svuotato la sede palermitana di via Bentivegna, dalle cui finestre ormai non si vede che qualche manifesto ingiallito.
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