L’amore per l’Italia arcaica, la repulsione nei confronti dell’imbarbarimento e dell’omologazione data dall’avanzare delle mode capitalistiche. Sono queste le ragioni – oltre all’innamoramento estetico per gli scenari lavici incorrotti – che hanno portato il friulano Pier Paolo Pasolini alle pendici dell’Etna. Una presenza che, nella Catania nera dei proprietari agrari e dei primi industriali, accresceva il valore culturale della giura del prestigioso premio Brancati di Zafferana, da un lato e, dall’altro, visitava i vicoli dei quartieri alla ricerca di luoghi da poter utilizzare per dar spazio alla sua vena cinematografica. Una passione costante, mordace ma non effimera, che portò il maestro ad acquistare una casa, un pied-à-terre, nella centralissima via Firenze dove – si dice – visse causando scandalo la sua tanto fieramente ostentata quanto ostacolata omosessualità. Che gli costò, nel capoluogo etneo ma quasi in ogni città d’Italia che lo ospitava, feroci insulti e contestazioni soprattutto dagli ambienti neofascisti che, in quel periodo, imbrattavano i manifesti dei suoi film. Gli stessi che, secondo alcune ricostruzioni, vollero infine il suo brutale assassinio.
«La suggestione analogica degli ambienti vulcanici con il deserto hanno sicuramente portato Pasolini a Catania per girare il suo Il vangelo secondo Matteo – racconta a MeridioNews Angela Felice, direttora del Centro studi Pasolini di Casarsa – ma lì ha ambientato anche alcune scene di altre opere. Ne Il vangelo, vediamo la parte dove Gesù viene tentato dal diavolo che ha per sfondo proprio l’Etna. In Teorema, invece – continua Felice – nella scena finale Massimo Girotti che interpreta il padre, dopo aver abbandonato le sue proprietà industriali, nudo, cammina nella polvere lavica e chiude il film con un urlo». Ci sono poi Porcile e, infine, I racconti di Canterbury dove il vulcano è invece l’inferno. «La pellicola è del 1972, quindi ci troviamo davanti ad un Pasolini disperato – continua la studiosa – Il paesaggio diventa dunque luogo del male, scenario nero con i diavoli che richiamano i quadri di Hieronymus Bosch».
Durante i suoi soggiorni etnei però il poeta non si limita solo al lavoro, come spiega la stessa direttora che ripercorre il ritratto di un intellettuale sportivo e dedito alle passioni della carne. «So che a Catania per altro era venuto a giocare delle partite di calcio – spiega ancora Felice – e aveva una casa per le sue ossessioni sessuali personali. La Sicilia – continua – gli era insomma nel cuore, vedeva in Catania il mondo della bellezza travolgente, dell’estasi». L’esperta parla inoltre di un lavoro del 1959 in cui il regista, pagato da una rivista milanese, ripercorre i luoghi del turismo marittimo italiano. «Il reportage si chiama La lunga strada di sabbia. Dopo aver passato gli stabilimenti marini del Centro, Pasolini arriva a Catania e trova spazi meravigliosi, intonsi. Vicini al mondo antico, al concetto di verità che la società borghese e capitalista ha perso divenendo, secondo un suo termine, derealizzata, lontana dalla realtà, falsa».
Cercando attori per i suoi film, Pasolini ha modo di osservarne i costumi e, nel 1973, nel suo diario, parla di una città «in frantumi». «Giovani impazziti, o ebeti o nevrotici – scrive per la rivista Playboy, col titolo Le mie mille e una notte – vagano per le strade di Catania coi capelli irti o svolazzanti, le sagome deformate da calzoni che stanno bene solo agli americani: vagano con aria soddisfatta, provocatoria, come se fossero depositari d’un nuovo sapere. Sono, in realtà, paghi dell’imitazione perfetta del modello di un’altra cultura. Hanno perso la propria morale, e la loro arcaica ferocia si manifesta senza forma». Oltre agli abitanti parla anche dei luoghi, e delle loro architetture. Come quelle del «quartiere delle Finanze, un tempo sfolgorante di luce e di bellezza fisica degli antichi corpi siciliani, che tace in un abbandono sinistro». «C’erano centinaia di puttane alle porte – ricorda Pasolini – come una casbah, tra quelle misere casette del Settecento o dell’Ottocento, e, insieme alle puttane, trionfanti, gli invertiti. Se ne stavano appoggiati coi sandali d’oro alle porte delle loro stamberghe, altezzosi, riservati, sdegnosi, e pronti a tutto. E i clienti venivano umilmente a trovarli; e se essi non possedevano una di quelle stamberghe, stracolme di luce – con la loro carta da parati pulita e la loro mobilia che ostentava un diverso e ben più raffinato tenore di vita rispetto a quello delle puttane – ecco che i clienti li facevano salire sui loro motorini, e alla fine, dopo l’amore consumato in un prato, sporco della sporcizia antica, li salutavano con una paterna stretta al sganascino. Ragazzini e già adulti, a causa della saggezza della povertà, oltre che della forza del loro sesso».
A parlare di questo periodo è anche Fernando Gioviale, ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo dell’università di Catania, che ricorda gli anni d’oro del premio letterario Brancati. «Durante i Sessanta assistiamo all’apice di un riconoscimento ancora prestigioso – spiega il docente a MeridioNews – che contava nella sua giuria, oltre a Pasolini, Dacia Maraini e Alberto Moravia, di cui era molto amico». Per quanto riguarda le contestazioni, il professore spiega come fossero sostanzialmente «una cosa tipica dell’epoca».«Le apparizioni pubbliche di Pasolini erano generalmente avversate dagli ambienti neofascisti – racconta – Ricordo ancora i manifesti de Il vangelo secondo Matteo pieni di volgarità contro il regista, scritte con i pennarelli. C’era una conflittualità permanente anche per la sua dichiarata omosessualità. Ma – conclude – quella era un epoca in cui si processavano i film con argomentazioni pretestuose come “oscenità” o “vilipendio della religione cattolica”».
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