Palermo, città dove i bambini stanno peggio che altrove «Trascurarli oggi significa ignorare gli adulti di domani»

A Palermo i bambini stanno peggio che altrove. È una frase, questa, tanto provocatoria quanto efficace per dare contezza di quanto emerso dalle ricerche della onlus Cesvi. L’edizione 2019 infatti dell’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia, un’indagine statistico-quantitativa elaborata dalla cooperativa con un team di ricerca che stima la vulnerabilità dei bambini al fenomeno del maltrattamento nei diversi territori italiani, relega la nostra regione in un impietoso terz’ultimo posto. E Palermo, in particolare, è tra le città del Sud che, come Catania e Napoli, secondo l’Istat hanno una maggiore vulnerabilità a livello sociale e materiale. È infatti una delle città con la più alta percentuale di minorenni sulla popolazione e con il maggior numero di famiglie in cui la persona di riferimento ha meno di 65 anni e in cui nessun componente è occupato o ritirato dal lavoro.

L’indice del Cesvi è costruito a partire dall’analisi dei fattori di rischio e dei servizi di ogni regione, un’analisi applicata tanto alle potenziali vittime quanto agli adulti potenzialmente maltrattanti. I risultati finali restituiscono una classifica decrescente delle regioni italiane, evidenziando le performance di ciascuna rispetto alle capacità di prevenzione e cura del maltrattamento sui bambini e sulle bambine. Le prime posizioni spettano perciò a quelle regioni che presentano sia minori rischi legati al contesto sia un sistema di politiche e servizi più adeguato a prevenire e contrastare il fenomeno. Malgrado, nel complesso, la visione generale restituita da quest’analisi sia positiva e premiante, noi restiamo una delle realtà a maggiore rischio e con una minore offerta di servizi, aspetti che dovrebbero diventare il prima possibile delle priorità con cui fare i conti. 

«È importante sottolineare, tuttavia, che la povertà infantile non è legata esclusivamente alle circostanze e alla disponibilità economica delle famiglie – chiarisce l’indice del Cesvi -. L’aumento della povertà infantile è stato collegato a fenomeni che minano la coesione sociale: un mancato sviluppo personale e cognitivo, difficoltà nel trovare un’occupazione stabile, maggiore dipendenza dall’assistenza sociale, rischio dipendenze più elevato. Tra le conseguenze del maltrattamento, certamente la povertà educativa dei bambini/e rappresenta una criticità che condiziona e limita i percorsi e le scelte di vita in modo significativo». Ma quand’è che si può parlare effettivamente di povertà educativa? «Quando il suo diritto ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare le proprie aspirazioni e talenti è privato o compromesso – spiega il report -. Non si tratta quindi di una lesione del solo diritto allo studio, ma della mancanza di opportunità educative a tutto campo: da quelle connesse con la fruizione culturale al diritto al gioco e alle attività sportive».

«L’infanzia è qualcosa che non ti viene a bussare alla porta, bambini e adolescenti non vengono a protestare sotto alla tua finestra per chiedere conto e ragione di quello che non sanno neppure di non avere. Uno dei motivi per cui oggi questo è un tema troppo trascurato». Non usa giri di parole Mariangela Di Gangi, presidente dell’associazione Laboratorio Zen Insieme, che da anni ormai sbatte la testa contro gli aspetti più drammatici del tema. «I rapporti e i dati restituiscono l’immagine di una città in cui, oggettivamente, le condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza non sono tra le migliori – torna a dire -. Sono anni ormai che il nostro Comune non investe alcuna spesa su servizi mirati e quando lo fa, attivando come accaduto di recente i servizi educativi territoriali e domiciliari, non è che qualcosa di embrionale che non può cambiare lo status quo delle cose». Il tema, posto da associazioni e realtà come quella di cui lei fa parte, resta ad oggi qualcosa di cui ci si prende davvero poca cura. Pur essendo uno dei più importanti in assoluto, se si pensa che in realtà «anche le emergenze più grandi, da quella abitativa alle marginalità e vulnerabilità in cui ci imbattiamo quotidianamente, partono dal fatto che quando si è piccoli non tutti hanno avuto gli stessi strumenti di persone che vivono in condizioni economiche più avvantaggiate».

Prendersi poca cura dei bambini, innanzitutto, per riflesso significa che a pagarne le conseguenze sono soprattutto i più bisognosi, i più poveri. Ma in generale è l’intera comunità, tutto il territorio a farne le spese. Non curarsi di un bambino oggi significa non curarsi neppure dell’adulto che sarà domani. «Non ci si riesce a prendere cura del gap e, anzi, non si fa altro che consolidarlo – spiega Di Gangi -. Ma sono consapevole del fatto che oggi è difficile per un’amministrazione pubblica programmare servizi per l’infanzia. La burocrazia e gli iter che ci stanno dietro sono molto farraginosi, lunghi, ostici. E questo ha delle conseguenze». Quello dell’infanzia, insomma, dovrebbe essere un tema prioritario per tutte le istituzioni, perché è da lì che passa tutto, «è l’unica forma esistente di prevenzione dei disagi e di tutte le forme di fragilità e marginalità». Solo occuparsi dei bambini, dei loro bisogni e diritti, significa lavorare tanto per il presente quanto per il futuro.  

Quello dell’infanzia dovrebbe essere un settore in cui investire energie, e non solo, insomma. Ma ad oggi l’amministrazione comunale non avrebbe neppure speso, da anni, i soldi della legge 285 del ’97, quella che attribuisce a un numero limitato di grandi città italiane, le cosiddette riservatarie, un fondo specifico ripartito direttamente dal governo nazionale per la promozione del benessere dell’infanzia e dell’adolescenza. «Palermo non spende questi soldi dal 2015, sono tutti accantonamenti dovuti a intoppi burocratici soprattutto. Ragioni che comprendo, ma se questa cosa è prioritaria si trovi il modo per spendere soldi per i servizi destinati ai bambini. Altrimenti – ribadisce Di Gangi – stiamo rinunciando a un’occasione e consolidando un gap, lasciando intere generazioni alla mercé di quello che capita. Non ci possiamo stupire poi dei bambini che tirano i sassi al tram o di quelli che bullizzano i compagni a scuola, perché oggi nessuno si sta occupando di loro, in questo momento nessuno gli sta dando la possibilità di scegliere, di essere altro». Le uniche agenzie educative che gli restano, a sentire la volontaria, sono le famiglie e le scuole, oggi più fragili che mai. 

«Non è tanto una questione di investimento», tenta di spiegare però anche l’assessore alla Cittadinanza solidale Giuseppe Mattina. «In questo momento ci sono 12 milioni di investimenti dedicati proprio a questo tema – garantisce -. Abbiamo risorse destinate e un piano complessivo elaborato, la fatica che facciamo sta nel riuscire a trasformare tutta la progettazione che abbiamo messo a disposizione del tema in servizi reali, perché il tempo è adesso obiettivamente troppo lungo». In questa cifra ci sarebbero anche i famosi soldi destinati dalla legge del ’97. «Siamo riusciti finalmente a programmare le risorse per progettare qualcosa, ma il passaggio all’esecutività ha purtroppo tempi più lunghi di quelli previsti – ribadisce -. Ci sono 22 enti che hanno messo in moto le loro attività e dei progetti. Abbiamo una serie di priorità, da oltre un anno abbiamo presentato un piano che purtroppo ancora non è partito, c’è un problema e non lo nego, quello di trasformare le progettualità pensate appunto».

Qualcosa, insomma, si sta muovendo. Almeno a sentire l’amministrazione. «Ma rimane troppo poco – osserva la volontaria -. Nel frattempo il problema rimane tale, diventa sempre più grave e meno rimarginalizzabile». Sullo sfondo di un tempo presente che non aiuta, anzi, semmai quasi colpevolizza gli adolescenti di oggi. Non aiutano nemmeno le condizioni economiche della maggior parte delle famiglie palermitane, molte delle quali devono fare tutti i giorni i conti con una povertà desolante. «Sport e cultura non sono gratuiti e Palermo non ha spazi a misura di bambino. Senza una strategia d’insieme che rifletta in questa direzione, l’unico appiglio resterà sempre la fortuna di nascere in una famiglia ricca o in un quartiere dove un Save the children qualunque si adopera per fare qualcosa», insiste Mariangela Di Gangi. «Se sei piccolo non protesti, non hai voce, non esisti. Investire sull’infanzia oggi significa riscrivere il presente e ripensare il ruolo della città nel futuro. Oggi allo Zen, come a Brancaccio, a Ballarò, a Danisinni ci sono circuiti virtuosi che innescano cambiamento e che partono, guarda caso, sempre dai bambini. La povertà si contrasta partendo dalla povertà minorile, se non partiamo da questo, creeremo sempre nuovi poveri».

Silvia Buffa

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