Omicidio Monachelli-Lucchese, processo alle battute finali «Ex compagna dell’imputato mentì per non perdere il figlio»

Sempre più vicino alle battute finali il processo per l’omicidio di Filippo Romano Monachelli e della moglie Elena Lucchese, uccisi a colpi di pistola il 20 novembre 1994, e ritrovati poi bruciati all’interno di un furgoncino bianco sul lungomare di Villagrazia di Carini. L’unico imputato per il delitto è il fratello dell’uomo ucciso, Natale Romano Monachelli, assolto in primo grado, ma condannato a 24 anni in appello. Condanna annullata poi dalla Cassazione, che ha rimandato il caso al secondo grado di giudizio. Ieri è stata ancora la volta della difesa, che ha concluso la propria arringa. Nell’ultima udienza di dicembre il legale Angelo Barone si era concentrato sul ruolo del collaboratore di giustizia Angelo Fontana, mettendone in dubbio l’attendibilità. Mentre ieri mattina ha proseguito il collega Salvatore Pirrone, che si è invece concentrato sulle accuse e le successive ritrattazioni dell’ex convivente dell’imputato, Erika Stjernquist, e degli altri testimoni svedesi sentiti all’epoca del dibattimento.

«Vogliamo confutare le mistificazioni poste in essere dalla Procura e dall’accusa nell’affermare determinate circostanze che non hanno mai avuto diritto di accesso in questo processo», spiega l’avvocato Pirrone. Molto ruota attorno alla figura di Erika, il personaggio chiave della storia, perchè, spiega il legale, «è lei che ha fatto nascere le indagini». Arriva in Italia nel marzo del 1994, lavora in alcuni bar e come baby sitter. Conosce Natale alla fine dell’estate e ai due basteranno solo una quarantina di giorni per decidere di convivere. Un paio di mesi dopo il delitto. Ma per accusare quello che nel giro di pochi anni si sarebbe trasformato nel suo ex compagno aspetta fino al 2000. Accuse a volte traballanti, ma decise, sicure, rilasciate nella fase predibattimentale. Quando, però, nove anni dopo si arriva al processo, la donna ritratta. «Temeva che con la separazione avrebbe perso il figlio avuto con l’imputato, che l’avrebbe cresciuto come stava facendo con Cesare, il figlio delle vittime». Un modello di educazione che la donna non apprezzava. Per questo, secondo la difesa, avrebbe accusato l’ex compagno. Per lei è attualmente in corso un processo per calunnia e autocalunnia.

Per dimostrare l’inattendibilità di Erika il legale di Natale ha tirato in ballo anche le testimonianze dei genitori della donna svedese. Lisbeth, la madre, si sarebbe anche lei più volte contraddetta, prima appoggiando e poi smentendo la figlia. «Erika la supplicò di assecondarla e di sostenere le accuse che aveva mosso contro l’ex compagno». Il padre della donna, Pearl, invece, denuncia alla Procura di aver ricevuto delle minacce – in seguito ritenute false – da parte dell’imputato, tramite una lettera recapitatagli durante la detenzione. Natale scriveva all’ex suocero: «Non devi dirlo a me che sono innocente, ma lo devi dire in tribunale», frase che in realtà faceva parte della risposta a una precedente missiva scritta da Pearl, in cui comunicava al palermitano i propri sensi di colpa. In qualche modo, secondo l’avvocato Pirrone, «il padre della donna corregge il tiro e fa in modo di non incorrere anche lui, come la moglie e la figlia, nel reato di calunnia».

Infine, il legale tira in ballo anche Maria Correra, madre di Elena Lucchese e parte civile nel processo. Alla donna viene contestato il fatto di aver detto solo anni dopo, a dibattimento già in corso, di aver appreso un’informazione potenzialmente importante dal nipote Luca Fiorentino a pochi giorni dal delitto. Il ragazzo avrebbe sentito due commensali in un ristorante di Borgo Vecchio parlare dell’omicidio dando per certa la colpevolezza dell’imputato. Una versione che Fiorentino non ha potuto confermare, perché morto prematuramente quattro mesi prima che la donna lo rivelasse in aula. Alla domanda sul perché di questo ritardo nel fornire questo dettaglio, Correra risponde: «Semplice, perché non avevo motivo di dirlo». Il processo proseguirà a febbraio con la replica del procuratore generale Giuseppe Fici e le eventuali considerazioni dell’avvocato Lorenzo Marchese, legale della parte civile.

Silvia Buffa

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